martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo IV





IV


La stanza era buia e fredda. Fuori pioveva. Pioveva come fosse la fine del mondo. La notte si dissanguava nel giorno nascente, la pioggia scendeva copiosa picchiettando contro le imposte. Dentro la stanza ticchettii metallici, artefatti, innaturali segnavano lo scorrere del tempo.

Qualcuno urlava.

Era un urlo soffocato, greve, come se nascesse dalle profondità della terra. L’urlo salì di tono e lacerò il silenzio. Un fiume di lava aveva trovato un varco fra le zolle tettoniche e liberava la sua rabbia infinita. Era pura forza. E quel furore impetuoso e vorticante urlava un nome, lo proclamava alle tenebre, alla nebbia e alla pioggia. Un nome terrificante.

Josefine!

Dammerschlaft si sorprese a bocca aperta, con la gola secca, senza fiato, senza più forze. Era stato lui a gridare e non se ne era accorto. Era stato lui a urlare nella pioggia, nel grigiore dell’aurora, a invocare quel nome che si era subito disperso in echi infiniti.

Aveva sognato qualcosa, immagini vaghe e confuse. Si levò dal letto e si mise a sedere. Non sentiva più le braccia. Le gambe presero a scuotersi in modo convulso. Tutto il suo corpo fremeva e ribolliva. Dentro la massa corporea era tutto un agitarsi, uno scuotersi, un ribellarsi all’inverno e alla notte. Un ribellarsi alla morte. Dal buio delle sue fibre si stavano risvegliando i ricordi.

Guardò l’orologio. Le quattro e quarantasette. Un fulmine attraversò il cielo e il boato del tuono si perse nella notte. Guardò ancora l’orologio. Le quattro e quarantanove. Sempre numeri dispari. Qualcosa non tornava.

Bussarono alla porta.

«Tutto bene, signor Dammerschlaft?» chiese una voce profonda, di là dall’uscio.

Gli parve di precipitare da altezze siderali e di ripiombare all’interno del suo corpo, ritrovandone il peso e il controllo.

«Sì, sì, tutto bene. Grazie» rispose la sua voce piatta e incolore.

Restò in attesa che passi pesanti si allontanassero fino a che dal corridoio non giunse più alcun rumore.

Fuori dalla stanza il giorno si scioglieva in un infinito presente.

Vi erano dei momenti in cui gli sembrava di essere sul punto di cogliere la verità. Un rapido balenare di chiarezza sulla superficie delle cose che quasi gli rivelava il momento supremo, il risveglio, il satori, il senso di tutte le cose.

La luce grigia del giorno, il ticchettare della pioggia, il rombo ovattato del tuono oltre i muri, il sospiro del vento attraverso la finestra. Rimase in ascolto. Ecco, quello era uno di quei momenti.

Ma quei frammenti di tempo scomparivano proprio nell’attimo in cui tutto gli appariva chiaro e sembrava che la verità si mostrasse nella sua nudità infinita. Ed era costretto a restare sulla soglia della rivelazione con una singolare sensazione nella bocca.

E anche adesso, come centinaia di altre volte, la luce del mattino, la pioggia, il vento e il temporale scomparvero come immagini confuse in un vuoto privo di significato. E la verità rimase ancora una volta distante.

In altri momenti i luoghi, gli oggetti e perfino le persone che conosceva da una vita e avrebbero dovuto risultargli familiari assumevano un aspetto irregolare e insolito, che glieli faceva apparire sotto una nuova luce, rendendoli ai suoi occhi perfetti sconosciuti.

Gli faceva male la testa. Forse l’urlo del risveglio era la rivelazione, la fine del suo incubo privato, la salvezza. Ma non riusciva a collegarlo con alcun senso salvifico. In verità non riusciva a connetterlo con nulla, non vi era niente dentro di sé che risonasse in armonia con quell’urlo. Era soltanto un corpo estraneo all’interno del suo corpo. Un corpo estraneo dentro un altro corpo estraneo.

Osservò le gambe che spuntavano dalle coperte. Erano gambe di giovane o di vecchio? Non seppe rispondere. Sapeva soltanto che erano sue. Ma erano deboli, magre, quasi scheletriche. La pelle aveva un colore malsano e si tendeva sulle ossa a mostrare ogni particolare anatomico, le vene, le articolazioni e l’incessante lavorio dei tendini. I muscoli erano flaccidi e atrofici.

Si avvide di una cicatrice che attraversava per tutta la sua lunghezza la coscia sinistra. La tastò con ribrezzo, infilando le dita dove la carne era stata lacerata, tagliata via di netto. Al suo posto, una striscia di pelle ricucita alla meglio. Toccare quel vuoto straziato gli diede la nausea.

Cosa poteva essere mai accaduto alla sua gamba?

Non conosceva dunque quel corpo, i tessuti che rivestivano la sua stessa anima? Gli parve di stare dentro qualcun altro, come uno spirito errante in un corpo preso in prestito.

Si alzò in piedi ed esaminò l’arto. Eseguì tutti i movimenti fisiologici, ma non avvertì alcun impedimento. L’articolazione pareva intatta. Con estrema cautela, prese a fare qualche passo. Portò avanti il piede destro e la gamba lo seguì docilmente. Provò con il sinistro e fu lo stesso. Riuscì a deambulare senza alcun dolore e senza zoppia, ma la nausea gli aggredì ancora lo stomaco facendolo barcollare. Dovette mettersi subito a sedere sul bordo del letto.

Quando si sentì meglio, si alzò e andò in bagno. Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l’acqua finché non fu gelida e se la versò sul viso. Il freddo lo scosse e rimase senza fiato. E sentì che di questo aveva bisogno, un salutare scossone che lo risvegliasse dal torpore nel quale erano precipitati il suo corpo e la sua mente, prigioniera del tempo. Si guardò allo specchio scrutando nel suo volto, scavando nei lineamenti e nel mistero profondo dei suoi occhi. Quella era la sua faccia e al tempo stesso non lo era.

Rientrando nella stanza, notò un luccichio sul pavimento immerso nell’ombra, nei pressi della scrivania. Avanzò fino a quel punto e si abbassò a vedere. Era una fiala di vetro che rifletteva la scarna luce.

«Morfina!» urlò quasi senza accorgersene. Subito si sentì soffocare dal panico, senza sapere perché.

Udì lievi colpi alla porta. Il suo cuore si arrestò e gli cadde in petto come una pietra.

Riuscì a poco a poco a ritrovare la calma, socchiuse l’uscio e sporse la testa fuori. Il corridoio era vuoto e silenzioso e le porte delle altre stanze erano chiuse. L’atmosfera era molto tranquilla, ma aleggiava una strana calma. Le stanze erano tutte libere, o forse erano morti tutti e i soli ospiti dell’albergo erano cadaveri. Forse era morto anche il portiere ed era stato il suo corpo decomposto a bussare alla porta. Forse anch’egli era morto, ma credeva di essere ancora in vita.

Forse, quanti forse.

L’idea che fosse morto davvero finì per tranquillizzarlo e rientrò. Sotto la scrivania c’erano altre fiale, tutte vuote e trovò anche una siringa usata. Aprì i cassetti e nell’ultimo scoprì fiale ancora intatte. Da dove veniva tutta quella morfina?

Gli venne una sorta di presentimento. Si sbottonò i polsini della camicia, arrotolò le maniche fino ai bicipiti e distese gli avambracci. Vi erano segni di iniezioni recenti, sotto la pelle si allargava la macchia bluastra di un ematoma. Aveva tentato il suicidio? A considerare la quantità di fiale vuote, avrebbe risposto di sì. Quelle dosi avrebbero ucciso un cavallo. Ma allora, perché era ancora vivo? E per quale motivo aveva desiderato la morte?

Ogni emisfero cerebrale è un insieme autonomo e perfetto, ricordò d’aver letto da qualche parte. È come se vi fossero due menti, due coscienze, due individui in una testa sola. Balenò rapida come un lampo un’immagine di giovani in camice bianco intorno a un cadavere in una sala circolare. E un uomo dai capelli brizzolati e gli occhiali contornati di metallo gesticolare nei pressi del corpo.

“Una psicosi cerebrale di natura tossica, indotta per esempio da dosi massicce di morfina” stava spiegando “può attecchire nel sistema percettivo determinandone una scissione e generando un cattivo funzionamento sia del sistema percettivo stesso che di quello cognitivo, sebbene quest’ultimo continui in apparenza a funzionare correttamente”. I ragazzi ascoltavano assorti ed egli era uno di loro.

Cosa significavano quei ricordi? Non ne aveva idea. Si era davvero iniettato la sostanza contenuta nelle fiale che aveva rinvenuto nella stanza numero novantacinque? E se era stato così, la morfina poteva aver danneggiato il suo sistema percettivo e il suo sistema cognitivo, poteva averli contaminati entrambi spargendovi tenebra a ricoprire ogni cosa, spegnendo ogni ricordo, ogni emozione e cancellando il suo passato? Poteva avere una simile spiegazione l’intermittenza dei ricordi?

Avvertiva pensieri non suoi, parole estranee e ignote affioravano di tanto in tanto da profondità nascoste e sgorgavano sulle sue labbra, come se un’entità sconosciuta parlasse una lingua straniera dentro la sua testa, tentando di sostituirsi al suo io cosciente.

Cosa gli stava accadendo?

Cercò la risposta fuori dalla finestra, ma la sua domanda rimbalzò nel grigiore della strada di sotto, si perse fra i rumori del traffico e le parole vane e inconsistenti dei passanti e fu risucchiata dalle nuvole gonfie di pioggia. Pensò che se avesse realmente tentato il suicidio, aveva scelto il giorno giusto per morire. Un giorno inutile, un giorno grigio, senza gloria, senza significato. Un giorno senza passato né futuro, un giorno di un calendario monotono e ripetitivo.

Si addormentò pensando al grande rompicapo che era la sua vita.



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