martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo IX Prima parte




IX

(Prima parte)


Heinrich si svegliò. Non si era accorto di essersi addormentato. Si era smarrito ai confini di un sogno, un delirio onirico nel quale Josefine era scomparsa e lui non riusciva neppure a ricordare il suo volto. Ma Josefine era accanto a lui, era sempre stata accanto a lui, forse aveva vissuto tutta la sua vita dentro lo stesso sogno. Tuttavia qualcosa l’aveva ridestato. Becker gli scuoteva una spalla, mostrandogli un vecchio cartello stradale arrugginito, piantato ai margini di un largo incrocio. Heinrich gli diresse un’occhiata interrogativa.

«Zevenaar.»

«Siamo già in Olanda?»

«Sì.» Becker sorrise. «È andato tutto bene, come ti avevo promesso.»

Poco dopo, sopraggiunse un lamento insopportabile e l’autocarro si arrestò. Josefine si svegliò stiracchiandosi le membra. Erano nei pressi della stazione ferroviaria.

I tre si guardarono negli occhi per un lungo, interminabile minuto.

«Non so come ringraziarti» disse alla fine Heinrich. Josefine abbassò il finestrino e si sporse a guardar fuori con cautela. Poi socchiuse lo sportello.

«Sciocchezze» disse Becker e gli porse un biglietto. «Cerca questa persona, vi aiuterà. E state attenti, mi raccomando.»

Il rumore del traffico penetrava dallo sportello aperto a infrangere la quiete ovattata della cabina di guida. Scesero. Dall’autocarro giunse loro un cenno di saluto. Ritti in piedi sulla banchina, come viaggiatori qualunque, lo guardarono allontanarsi nel fumo azzurrognolo dei gas combusti, finché scomparve.

Il treno arrivò puntuale, preannunciato da un fischio assordante e si fermò sbuffando come una caffettiera. Josefine si strusciò affettuosa sulla sua spalla. Il controllore verificò i biglietti senza prestar loro troppa attenzione. Heinrich scambiò con lui alcune battute sul tempo. La piatta campagna olandese si stendeva a perdita d’occhio fuori dal finestrino. Erano distanti mille miglia e mille anni dalla Germania e dalla guerra.

Josefine stirò le membra e sorrise. Egli le circondò le spalle con un abbraccio e le baciò la fronte. «Ce la faremo, vedrai.»

Lei rispose con un bacio e un sorriso.

Il treno ebbe un sussulto e lo stridore atroce e lancinante dei freni lacerò loro i timpani. Il convoglio agonizzava in un moto lentissimo e con un ultimo fiacco rantolo si arrestò completamente. Heinrich si sporse dal finestrino. Si trovavano in aperta campagna e non vi era traccia di stazioni o di centri abitati. Temette un attacco aereo e stava per dire a Josefine di accucciarsi dietro i sedili, quando un’automobile giunse sferragliando sulla ghiaia e si arrestò accanto al treno fermo sulla massicciata. Ne discesero quattro individui intabarrati in lunghi soprabiti scuri, le tese dei cappelli tirate fin sugli occhi. Salirono a bordo. Gli venne fortissima la tentazione di saltare giù dal treno e mettersi a correre a perdifiato nella campagna, tirandosi dietro Josefine, ma non fece neppure in tempo a prenderle la mano che, con un sibilo acuto, il convoglio ripartì, precludendo loro anche quella via di fuga.

In fondo al corridoio gli uomini in nero si avvicinavano, controllando documenti e facendo domande ai passeggeri. Heinrich la guardò negli occhi e poiché non v’era il tempo di dire nulla, cercò di infonderle in quel modo tutta la sua calma e la sua forza.

«Buongiorno signori. I vostri documenti, prego.»

Heinrich salutò con un rapido cenno del capo e presentò i passaporti.

Un componente della nera brigata si posizionò nei pressi del sedile, impedendo il passaggio e guardandoli così fisso negli occhi, che furono certi che neanche la più lieve colpa annidata in fondo alle loro anime gli sarebbe sfuggita.

Josefine non respirava neppure, ma egli la sentì tremare.

«Il signore e la signora Dammerschlaft di Colonia» disse dopo aver esaminato a lungo i documenti. «Oh pardon, avrei dovuto dire il dottor Dammerschlaft.»

Egli cercò di assumere il contegno più solenne possibile.

«Vedo che siete freschi sposi. In viaggio di nozze, suppongo?»

«Precisamente.» Il falsario aveva fatto proprio un bel lavoro. Lo benedisse mentalmente. Aveva fatto diventare Heinrich un medico, Josefine un’insegnante di musica e, già che c’era, li aveva uniti in un matrimonio mai celebrato.

«Allora, vogliate gradire i miei omaggi e l’augurio di un meraviglioso soggiorno in Olanda.»

Heinrich si lasciò andare contro lo schienale, guardò Josefine e le baciò la mano ancora tremante. Lei sorrise e una felicità incontenibile parve nascere dall’immensità dei suoi occhi cerulei, e strinse forte la sua mano.

«Ti preparerò i kreplech e accenderò per te le candele del sabato.»

«Non sono religioso» sospirò. «In realtà, non credo che esista alcun Dio.»

«Heinrich, no! Non devi dire così.»

Egli preferì non replicare. Abbandonò la testa sul sedile e si sentì bene. E questo gli bastava. Il sole era alto e riscaldava il vagone. Alcuni passeggeri conversavano in una lingua dolce e garbata, un distinto signore con gli occhiali cerchiati d’oro leggeva placido il suo giornale, due o tre bimbetti biondi schiamazzavano allegramente, sciamando su e giù per il corridoio, come rondini in un flusso di vento caldo. La campagna olandese era una donna che si stendeva languida al sole, godendo delle sue carezze e se mai un tempo era esistita la guerra, essa era ormai un ricordo sbiadito e lontano, un sogno spaventoso, quasi del tutto dimenticato.

Heinrich già benediva in cuor suo l’Olanda, quando vide che in fondo al corridoio si era formato un capannello. Due degli uomini vestiti di nero parlottavano concitati con il controllore. A questi si aggiunsero ben presto gli altri due e iniziarono a far cenni e a guardare con insistenza nella loro direzione. Poi, come se avessero preso una risoluzione, si mossero tutti insieme. Mentre si avvicinavano, udì qualcuno chiedere: «Dove ha detto che sono diretti?»

Heinrich si sentì perduto. Ebbe la certezza che erano stati scoperti. Ma cosa fare? Dove fuggire?

Lo sparuto gruppetto si avvicinava, il controllore gli fece dei cenni da lontano. «Mi scusi, può mostrarmi ancora una volta i biglietti?»

Il suo cuore mancò un battito e sentì defluire il sangue dalla faccia, lasciando al suo posto una pallida maschera.

«Herr Dammerschlaft, herr Dammerschlaft!» strillò il tale che gli aveva controllato i documenti.

Doveva fare qualcosa, ma che cosa?

In quel momento, il treno lanciò un fischio acutissimo, il suo ritmo sferragliante prese a scemare e rallentò la sua corsa. Erano vicini a una stazione.

«Presto Josefine, presto, non dire nulla e seguimi, svelta!»

Le prese la mano, lei afferrò la valigia e corsero verso l’uscita.

«Dottor Dammerschlaft, dottor Dammerschlaft, si fermi, prego!»

Il convoglio si arrestò alla stazione e saltarono giù. Sul binario accanto stava arrivando un altro treno. Heinrich strinse forte la mano di Josefine e corsero insieme attraverso i binari. Il treno sferragliò spaventoso, in un vento assordante e li mancò d’un soffio. Non si voltarono indietro e continuarono a correre. Il treno intanto si era fermato e vomitava una folla di passeggeri dai vagoni. Erano per lo più contadini, le donne portavano cassette di ortaggi in bilico sulla testa e gli uomini casse più grandi traboccanti di frutta e gabbie piene di conigli e di galline. C’era una grande confusione e la stazione ne fu invasa in pochissimo tempo. Un’orda torbida e multiforme, la turba composita e variegata delle campagne, il rigurgito delle città in tempo di guerra. Heinrich e Josefine furono risucchiati dalla marea umana e finirono per confondersi in mezzo a quell’umanità varia e semplice, odorosa di terra e di bestiame.

Si nascosero nell’ombra, fra le colonne di un porticato, ansanti e impauriti. Ma nessuno aveva potuto seguirli in quel marasma. Heinrich la strinse a sé e la baciò. Josefine, incerta e sconvolta dalla corsa, si arrese ai suoi baci. Poi si presero per mano e, come due studentelli che avevano marinato la scuola, s’inoltrarono per le vie della città vecchia. Utrecht era splendente e l’altissima torre del duomo svettava nel sole. La città era intatta, la guerra non l’aveva neppure sfiorata. Erano salvi.

Si incamminarono per i portici e il passaggio dalla luce calcinata della piazza alla penombra li rese temporaneamente ciechi. Josefine indovinò dall’odore la presenza di una libreria. Entrò e prese a scorrere le dita sulle costole di libri polverosi, sulla carta antica, ingiallita dal tempo, sulla quale resistevano ancora, aggrappate alle fibre con gli accenti, i punti e le virgole, le parole.

La bottega era angusta, ma zeppa di volumi, le pareti erano incastonate di libri. Tomi dagli argomenti più disparati erano ammucchiati sul pavimento in pile alte quasi quanto un uomo. Vi erano testi universitari, opere di scrittori olandesi pressoché sconosciuti e dimenticati nel buio e nella polvere, trattati di filosofia e di estetica, volumi illustrati di pittura fiamminga. Alcuni erano molto vecchi.

Heinrich rimase sulla soglia, scrutando guardingo la vasta piazza oltre il colonnato.

Josefine lo chiamò.

«Una volta ero una lettrice accanita.» Sospirò. «Sembra passato così tanto tempo, quasi una vita intera, e invece era soltanto la settimana scorsa.»

Heinrich le prese una mano e le accarezzò la guancia, ma non riuscì a impedire che una lacrima si affacciasse dal blu dei suoi occhi.

«Posso esservi utile?»

Trasalirono. La domanda era stata posta da un vecchio dall’aria stanca. Nell’oscurità della libreria non l’avevano notato. La sua figura incurvata si confondeva fra le cataste dei libri, il suo viso era simile alla carta stantia e raggrinzita dei suoi volumi. Si sarebbe detto che fosse vecchio quanto i libri che vendeva.

«Diamo un’occhiata, se non le spiace.»

«Certo, certo, fate… fate pure» rispose il libraio. «Questi vecchi libri non interessano più a nessuno.» Guardò con aria afflitta il pavimento sporco.

«Ma no, si sbaglia» disse Josefine. «Questi volumi sono molto interessanti.»

«Lei trova?»

«Sì, per esempio, questo sulla pittura rinascimentale è molto bello.»

«Mi scusi» si intromise Heinrich. «Ci può dire come possiamo arrivare ad Amsterdam?»

«Ad Amsterdam…» fece il vecchio cogitabondo, poi il suo volto s’illuminò. «Ma certo!» Consultò l’orologio da taschino. «Ci dovrebbe essere un treno in partenza adesso…»

«Temo che non riusciremo mai a prenderlo» lo interruppe Heinrich.

«Dunque, potreste andare con il torpedone, non è molto confortevole, però…»

«Il torpedone andrà benissimo.»

«Parte a mezzogiorno in punto, ma è dall’altra parte della città. Forse se vi affrettate…» E le sue parole già si spegnevano nel vento dei loro piedi veloci per le strade di Utrecht.

«Aspettate, aspettate!» Il vecchio li raggiunse trafelato con un grosso volume fra le mani.

«Mi dispiace.» Josefine sorrise con dolcezza. «Non possiamo permetterci di acquistarlo.»

«Ma non voglio venderlo. È un omaggio, lo prenda. Sono sicuro che lei saprà apprezzarlo più della polvere della mia libreria.»



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