martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo V



V

Dammerschlaft si svegliò, si guardò allo specchio e non si riconobbe. Il portiere lo salutò con cordialità. Il suo volto non era un mistero per gli altri. Strani giorni erano venuti e molti altri attendevano fuori dalla porta. Avrebbe tanto desiderato scrivere, fissare sulla carta i rari frammenti in chiaro, le schegge di luce che si perdevano nella notte della sua coscienza. Ma non ne era capace. I giorni erano sogni assurdi che evaporavano all’alba in un florilegio di desideri assopiti. La sua vita era un volo sospeso fra lucidità e follia.

Il bar era desolatamente vuoto, si accomodò al bancone e ordinò un caffè. Mentre rovistava con il cucchiaino dentro la tazzina, si sentì strano, ebbe caldo e freddo insieme, come se avesse la febbre. Un tizio che non aveva notato, appollaiato su uno sgabello all’estremità opposta del bancone, lo stava fissando. Dammerschlaft distolse lo sguardo. Anche l’altro fece lo stesso. Il mondo era un teatro. Forse l’uomo sullo sgabello si credeva l’attore principale, ma si sbagliava. Quel ruolo era il suo. Dammerschlaft lo guardò di nuovo e anche l’altro riprese a fissarlo.

Quel tale lo osservava con attenzione discreta e costante. Le sue occhiate erano rette spezzate dal pavimento al suo volto. Dammerschlaft cercò di intercettare le linee della sua curiosità, ma lo sconosciuto abbassò ancora una volta lo sguardo. Non seppe decifrare la sua età, aveva una fisionomia molto comune. Non aveva nulla di particolare e, in generale, non lo colpì in alcun modo, se non per il fatto che se ne stava seduto come un sacco vuoto sul suo sgabello.

Tuttavia, occhiata dopo occhiata, lo sconosciuto si faceva più intraprendente, fino a che i movimenti dei suoi occhi non furono più linee spezzate dalla sua faccia al pavimento, ma si tramutarono in rette insostenibili, cariche di domande silenziose. Dammerschlaft ebbe un presentimento, pagò e uscì.

Attraversò la strada e vide che l’altro lo guardava dalla soglia. Passò davanti all’albergo e per precauzione tirò dritto. Lo sconosciuto attraversò la strada e lo seguì. Sentì alle spalle i suoi passi concitati e si strinse nel cappotto.

«Signor Dammerschlaft, aspetti signor Dammerschlaft.»

Dove aveva sentito prima quella voce acuta e sgradevole? Dammerschlaft affrettò il passo. Anche l’altro. Presto l’avrebbe raggiunto. Allora si mise a correre.

«Signor Dammerschlaft, si fermi per favore.»

Fecero il giro dell’isolato, ma la distanza fra loro si allungò come una molla, tanto che a un certo punto non lo vide più. Si fermò. Non c’era nessuno a inseguirlo. Ma fece per voltarsi e se lo trovò di fronte. Erano talmente vicini che poté sentire il suo odore, così vicini che si accorse che il suo volto aveva qualcosa che non andava. Cacciò un urlo e l’altro si spaventò. Dammerschalft ne approfittò per rimettersi a correre. Si fermò solo alla fine del caseggiato, ma prima di svoltare l’angolo si girò ancora una volta a guardare. Lo sconosciuto si era appoggiato a un portone e cercava di riprendere fiato. Tentò ancora di chiamarlo, ma dalla sua bocca uscì soltanto un rantolo, e allora prese a fare grandi movimenti delle braccia.

Si sentì al sicuro fra le ombre della hall, anzi, desiderò di essere trasformato su due piedi in una di esse, in una macchia sulla tappezzeria, o sul risvolto della poltrona. E, perché no, in un insignificante scarafaggio, a patto che fosse una metamorfosi incruenta. Se fosse esistita una pillola per svanire dal mondo, giurò su Dio, l’avrebbe inghiottita con avidità. Considerò il modo in cui lo sconosciuto l’aveva guardato prima di scantonare. All’inizio gli era sembrato uno sguardo minaccioso, ma poi gli era parso che un’espressione afflitta e implorante fosse calata sul suo volto. L’espressione di chi chiede aiuto.

Mentre saliva le scale a due a due udì dietro di sé il saluto cortese e risoluto del portiere. Per la fretta non rispose, ma sbagliò piano e fu costretto a ridiscendere guardingo le scale. Per poco non sbatté contro il portiere che saliva, che lo salutò di nuovo, alquanto sorpreso.

Rientrò in camera sudato e ansante, chiuse a doppia mandata e si buttò sul letto. La stanza era ancora immersa nella penombra. La luce opaca del giorno stendeva incerta le sue lunghe dita fra le ombre. Era molto agitato. Non aveva mai visto quell’uomo, non immaginava cosa volesse da lui. Lottò con se stesso per convincersi che non era altro che un’allucinazione scatenata dal suo io più profondo e indecifrabile: una creatura deforme dissepolta dalle profondità abissali della percezione gli aveva urlato in faccia il suo nome, come un delitto che non sapeva di aver commesso.

Qualcosa non funzionava bene in lui, ormai ne era certo. Aveva la sensazione che il suo corpo fosse diviso a metà e che ognuna di esse ignorasse l’esistenza dell’altra. Sentiva come se una parte di sé gli si fosse rivoltata contro. Due distinte entità lottavano cercando di sopraffarsi l’un l’altra ed egli era spettatore inerme e silenzioso del dramma della coscienza che si lacerava, dell’io che moriva lentamente.

Dammerschlaft trasalì.

Un’ombra più scura delle altre emerse dalle mura, si stagliò sul fondo della stanza come un bassorilievo e la luce tremula delle imposte ne accarezzò i contorni, tenui e lievi, con tratti di matita in chiaroscuro. C’era qualcuno in camera.

I suoi occhi si adattarono alla luce spettrale del mattino e misero a fuoco un’immagine singolare. Una donna completamente nuda era seduta sul suo letto e gli sorrideva.

«Heinrich, caro, dove sei stato?»

«Ho creduto di sognare e che nel sogno tu mi abbandonassi. Mi sono svegliata nel letto vuoto e temevo che fossi fuggito.»

Non lasciarmi mai più.

Dammerschlaft credette di impazzire. I suoi sensi accettavano pacificamente quella presenza e non seppe spiegarsene il motivo. Ma il suo cuore no, il suo cuore batteva forte e gli percuoteva il petto con gli zoccoli d’acciaio sfavillante d’un cavallo imbizzarrito.

Non ti muovere, ti voglio guardare.

Ti ho ammirata a lungo, ma tu non mi appartenevi.

Resta così, non aprire gli occhi, sei così bella.

Aveva già assistito a quella scena, aveva già sentito quelle parole, ne era sicuro. Un dio stravagante e crudele si divertiva a far andare avanti e indietro il tempo a suo piacimento. Rimescolava la sua vita con la destrezza di un giocatore di carte che scozzando il suo mazzo sovverte i destini di fanti e regine.

Una nuvola velò il già fragile chiarore. Gli parve che il dolce sorriso che animava quel volto appena abbozzato dal gioco di luci e ombre trasfigurasse nel vano stridore di denti di una creatura terrificante. Il ghigno di un teschio che lo fissava da orbite vuote. Fu solo un istante, un lampo nel buio, ma gli parve insopportabile. Presto la luce riprese vigore, il sorriso tornò a fiorire sulle belle labbra damascate in arabeschi ombrosi e la vita germinò di nuovo su quel viso, come un fiore che sbocciava in suo onore.

Avvertì la sensazione, molto viva e lucida, per quanto assurda, che alla sua vita mancassero ore, giorni, forse mesi, e che di essi fosse rimasta soltanto un’eterea impressione, come di notte, la scia fosforescente dalla poppa di una nave.

Frammenti di vita finiti chissà dove.

Il suo cervello stava andando in avaria. Forse una malattia rara mostrava i primi sintomi. Forse stava morendo. I neuroni si spegnevano uno dopo l’altro come stelle nere. Si rassegnò a una notte senza fine.

Dammerschlaft si stropicciò gli occhi e strinse le palpebre finché non gli fece male. Poi le riaprì. Lei c’era ancora, stava seduta sul letto, perfettamente salda nella sua nudità e gli sorrideva. Il ventre palpitava lieve e i seni si sollevavano e si abbassavano sulle onde del respiro.

Chi era quella donna?

Non l’aveva mai vista prima, eppure era sicuro di conoscerla. I contorni sfumati dalla delicata luce del mattino, la curva morbida dei suoi fianchi, la massa scura e frastagliata dei capelli e il vuoto trasparente e vacuo delle iridi. Sentiva nel profondo del suo cuore che tutto questo gli apparteneva.

Gli girava la testa. Sapeva già di amarla, di amare perdutamente quella donna sconosciuta. L’amava come si amano le donne che non si possiedono, le donne sfuggenti, che sanno liberarsi dalla morsa del nostro abbraccio e non tornano più.

Forse quello che stava vivendo era un giorno qualunque, un giorno a caso nella vita di uno dei tanti Heinrich Dammerschlaft nelle infinite dimensioni parallele dell’universo. Lo stesso maledetto giorno, incastrato negli ingranaggi del tempo, si ripeteva identico in tutti quei mondi così distanti. La sua psiche si stava disgregando, il suo io si frammentava e disperdeva in miliardi di schegge, ognuna delle quali si credeva un’entità distinta e senziente.

Ma entrambe le spiegazioni portavano alla stessa domanda: chi era Heinrich Dammerschlaft?

Senza alcun preavviso, il chiarore del giorno dissipò le ombre e la tenue figura scomparve, si dissolse nella grigia luce di una tardiva primavera ed egli non seppe dire in seguito se l’avesse soltanto sognata.



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