martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo VIII 2 parte




VIII

(Seconda parte)


Il sole aveva da molto oltrepassato il culmine della cupola dorata del cielo e si apprestava a percorrerne la parabola discendente. Rapiti dalla narrazione, non si curavano più dello scorrere del tempo. I loro volti, accesi e infiammati, riflettevano l’incendio del tramonto. Un lontano orologio chiamò l’ora.

«Ora devo proprio tornare a casa. Grazie per avermi fatto compagnia.»

«Spero che non sia un addio, ma un arrivederci.»

«Non so. Gli addii e gli arrivederci sono a volte molto simili nelle intenzioni.»

«Credo di non aver compreso.» Heinrich si accorse di un luccichio ondeggiante sul petto della giovane, proprio nell’incavo fra i seni.

«Non importa» tagliò corto lei. «Buona giornata.»

Il luccichio sembrava prender forma di rette e punte. Egli guardò meglio. Le linee e i vertici formavano un triangolo. Anzi, a ben vedere, i triangoli erano due, l’uno incastrato nell’altro.

«Arrivederci» disse ormai alla sua schiena e alla sua ombra che si allontanavano.

Qualche oscuro mistero si celava nel profondo dei suoi occhi, ne era certo, e quell’arcano inspiegabile si era impadronito della sua stessa essenza, della sua volontà, della sua vita e gli impediva di mettere a fuoco il mondo.

Ma come per l’inusitato effetto di una formula alchemica, il bizzarro rompicapo di vertici, rette e triangoli si ricompose nella sua mente e fra i suoi seni apparve una stella d’oro. La stella di David.

Se fosse stato un altro, avrebbe lasciato perdere quella donna, sarebbe fuggito a gambe levate, l’avrebbe evitata come si evita un pericolo imminente. Ma egli non era nessun altro e non poteva più fuggire, e già aveva dimenticato il mondo, la guerra, i suoi cari, i suoi doveri. Non gli importava più nulla, neanche di se stesso. Doveva vederla ancora, doveva sapere tutto di lei, nei minimi particolari. Voleva che le più piccole e insignificanti cose che facevano parte del suo mondo fossero anche le sue e che i tormenti che la opprimevano opprimessero anche lui.

E sopra ogni altra cosa, desiderò che lei gli appartenesse.

Restò a guardarla fendere la calca sui marciapiedi, la sua figura diventare sempre più piccola finché non si dissolse nella folla. Egli sentì il vuoto dentro, un vuoto che, sapeva, difficilmente sarebbe stato colmato.

Ma si mantenne fermo nella sua risoluzione. Il giorno successivo si svegliò di buonora, si rase con maggior impegno del solito e scelse con cura il suo abbigliamento. L’attese dall’altra parte della strada, in un bar di fronte al suo portone. Brandelli di conversazioni di cui captò solo alcune parole, un cicaleccio popolare come rumore di fondo, vibrazioni a bassa frequenza su cui cavalcavano singolari note di testa e di cuore. Infilò le mani in tasca, rade monete vociarono al suo tocco. Ordinò un caffè e cercò di farselo bastare. Qualcuno gli rivolse la parola. Senza divisa, era un uomo come gli altri.

Ed eccola al tramonto uscire finalmente dal portone, attraversare la strada, ticchettando sui suoi tacchi a testa bassa e finire proprio fra i suoi piedi. Egli se la ritrovò quasi fra le braccia. Josefine sollevò il viso trattenendo tutto il suo stupore.

Heinrich smise di respirare. Era così semplice e puro il rossore dipinto sul suo volto, così incolpevole l’azzurro dei suoi occhi. Era così bella.

Non avrebbe potuto sperare di meglio. Proprio quando cominciava a credere che non avrebbe mai più visto quella donna, lei gli era caduta in braccio.

«Buonasera!» Heinrich sorrise.

«Buonasera.» fece lei risistemandosi il cappellino sui capelli ondulati.

Sapeva di alberi di cipro, di mirto e brezza di mare. Era come se il profumo venisse dalla sua bellezza, dalle profondità della sua stessa anima. Il suo odore sovrastava il profumo della sera e si scioglieva nell’aria come un canto.

Josefine prese a discorrere. Heinrich l’ascoltava in silenzio, non osava fiatare, non osava interromperla. Era bella la sua bocca mentre partoriva le parole. Il volto era trasparente e puro come il vetro. Le emozioni nascevano sotto la pelle anticipando la natura dei pensieri e le espressioni si formavano sul suo viso come increspature sulla superficie del mare. Rimase incantato dalla danza delle mani che accompagnava i passi salienti del suo parlare, degna della principessa Salomè. Era una donna intelligente, di raffinata cultura. Ogni cosa l’affascinava. Era attratta dai più disparati argomenti nel campo dell’arte e della letteratura, della filosofia e della religione. Parlarono molte ore senza prestare attenzione al loro cammino, finché non si ritrovarono in un quartiere popolare.

Le mura grigie e scrostate dei palazzi incombevano da ogni parte. Si faceva sera e le ombre si allungavano su di loro con neri artigli. Josefine tacque e la sua figura già minuta parve farsi ancora più piccina. Si accostò a lui ed egli d’istinto le cinse le spalle come per proteggerla da quelle ombre e l’attirò a sé. Josefine si lasciò condurre ed egli sentì il profilo ondeggiante del suo corpo aderire perfettamente al suo.

Davanti ai portoni, negli anditi, sui marciapiedi e per strada, bambini magrissimi, emaciati, indignavano la vista con i loro capelli incrostati, i volti sporchi e le mani unte con le unghie contornate di nero, come se le avessero affondate per gioco nel carbone della notte.

Erano immobili e silenziosi, lo sguardo vuoto, assente. Uno spettacolo anomalo, un coro pallido e silente al termine di una tragedia. Faceva male al cuore. Sulle gote smunte di alcuni di loro lo sporco si era sciolto in lunghe scie al passaggio delle lacrime. Probabilmente non toccavano cibo da giorni. La miseria e la disperazione aleggiavano sul quartiere come spettri inquieti.

Una voce si levò nell’ombra.

Shemà Israel

Adonai eloheinu

Adonai ehad

baruch shem kevod malkhuto leolam va’ed…

Le parole si spensero in singulti. Una donna piangeva. Josefine sollevò il viso. I suoi occhi erano pieni di lacrime.

«Siamo così pieni di miseria, questa guerra ci rende poveri dentro» disse Heinrich.

«Non possediamo più nulla, vero?»

«Noi non possediamo più nulla, neppure il tempo.»

Da una finestra aperta una musica si spandeva lieve nel crepuscolo. Gli parve di averla già sentita, anzi, fu quasi certo di averla riconosciuta. Era, con ogni probabilità, una sinfonia di Brahms, un andante largo e maestoso. Quelle note sapevano di morte e disperazione, di dolcezza e rassegnazione e si dissolvevano nella malinconia e nel rimpianto. Ebbero freddo, rabbrividirono e, stupiti, si cercarono. Si trovarono nell’androne buio di un palazzo, tremanti per l’emozione e il pericolo di essere scoperti.

Lei affondò il viso nella sua spalla e al sicuro fra le sue braccia si lasciò andare a un lungo pianto, singhiozzando come una bambina. Anche Heinrich avrebbe voluto piangere, ma non ci riuscì e tenendo fra le braccia quella donna, ripensò ai morti dilaniati, ai cadaveri gonfi che galleggiavano come orrende boe. Riascoltò le urla, il crepitare delle mitraglie, le esplosioni assordanti, il rombo urlante dei bombardieri appesi al cielo livido e duro come il ferro. E le bombe fischiavano allegramente, seminando il panico tra le fila gloriose dei soldati, nell’orrido ruggito di esplosioni che scagliavano in aria poveri corpi in pezzi, come giocattoli rotti. Giovani pieni di vita, che respiravano e parlavano e piangevano. E avevano paura.

E intanto la musica andava e andava e non voleva smettere di andare lieve e mesta per le strade e per i vicoli e salire fino ai piani più alti dei palazzi, fino alle nuvole immobili in ascolto e sempre più in alto, a toccare le stelle e farle piangere, perché quella musica era il grido di dolore dell’umanità tutta intera, il pianto mesto e rassegnato della terra.

Il grammofono gracchiò e tacque. Heinrich pensò che anche se non era Brahms, chiunque aveva scritto quella musica sapeva bene cosa fossero il dolore e la disperazione.

Josefine gli si strinse addosso. A lui parve di sentire le voci argentee delle stelle. La baciò e senti sulle labbra il lieve sfiorare dei petali di un fiore.

Si salutarono sulla soglia di casa sua, giurando di rivedersi l’indomani.

Heinrich passeggiò ancora nella notte, felice come non era mai stato. Sentiva il suo profumo pulito e delicato, l’odore di boschi fragranti e umidi. Vagò per tutta la notte, non avrebbe potuto addormentarsi per nessuna ragione al mondo. Quella notte era così bella che non doveva essere sciupata, non poteva permettersi di perderne anche un solo istante dormendo.

Si levò il sole ed egli andò sotto casa sua ad aspettarla. L’attese per tutto il giorno in strada, ma lei non si fece vedere, l’attese per tutta la notte, ma di lei neppure l’ombra. Venne l’alba e lui era ancora lì, sotto il portico, davanti al suo portone. Bussò, ma nessuno rispose. Chiese di lei a tutti i passanti, ma sembrava svanita, inghiottita dalla terra. La cercò per le strade e per le piazze, nei luoghi in cui erano stati insieme e in quelli che non conosceva, ma lei non c’era. Alle prime ombre della sera il dolore alla gamba si fece insopportabile e se ne tornò al suo albergo. Aprì la valigia e trovò quello che cercava.

Una piccola scatola di latta. Alcune lettere gotiche stampigliate sul coperchio proclamavano che era di proprietà del Ministero della Guerra. Egli l’aprì e ne estrasse una piccola fiala. Morfina. Nella scatola ce n’erano abbastanza da stendere un cavallo per un anno, ma all’ospedale gli avevano detto di non assumerne più di una alla settimana. Il contatto dell’ago sulla pelle lo fece rabbrividire, ma si lasciò trafiggere. Si distese sul letto e chiuse gli occhi, mentre un piacevole tepore si propagava rapido nelle sue membra.

Lei non viene. Non conosce la strada per la porta del cuore.

Lei non viene. Non possiede la chiave per la porta del cuore.

Custodiva il sorriso dell’attesa come un tesoro, lo serbava per fargliene dono. Apparecchiò la stanza con cura e si preparò a riceverla. Il suo cuore palpitava forte a ogni rumore. Sentì passi in corridoio venire verso la sua porta. Si sistemò i capelli e la camicia per piacerle. I passi indugiarono e poi proseguirono. Trascorse una quantità di tempo che non seppe calcolare. Stava per prendere il soprabito e uscire di nuovo, quando la porta si aprì.

Era venuta profumata di pioggia e patchouli e l’aria fresca danzava sui suoi capelli umidi. Era stato soltanto un involontario succedersi di spiacevoli contrattempi a trattenerla, o aveva dubitato fino all’ultimo di lui?

Stava sulla porta, indecisa se oltrepassare la soglia di quel mondo nuovo, inspiegabile, di quel mondo in penombra, eppure così bello e misterioso, o se restare dalla sua parte di confine, nel mondo di tutti i giorni, confortevole e conosciuto.

Josefine non decise.

Fu lui ad attrarla a sé, a baciare la sua bocca, schiusa come un fiore. Lei era rigida, spaventata e si faceva scudo della debole armatura delle braccia incrociate sul petto. Heinrich sussurrò il suo nome fra i suoi capelli, sulla sua pelle, tante volte. Adorava pronunciare il suo nome, piacque anche a lei.

Erano corpi opposti, in antitesi, anti-corpi. Le braccia si distendevano, le mani si avvicinavano, cercando un contatto, ma bruscamente si ritraevano, senza essersi sfiorate, come se intuissero il freddo all’interno dei loro corpi, il gelo dentro i cuori. Erano come morti.

Era spaventoso.

Le teste si voltarono, lentamente, non nello stesso istante. E la bocca raggiunse l’altra bocca. Egli sentì il respiro vicino al suo, così simile al suo. Regolare, rassicurante. Il fiato. Tiepido, tenue. Denti morsero labbra in attesa. Labbra si ritrassero e scoprirono tesori nascosti, perle incastonate in sorrisi inevitabili. Profezie di lingue vagavano, tracciando contorni sconosciuti.

Egli copriva quel corpo con il suo, come una coperta pesante per l’inverno, come un sudario. Come un’ombra. Le loro membra erano radici che affondavano nella terra nuda e suggevano linfa vitale per i loro corpi liquidi. Erano reclusi in un cono di luce, prigionieri di loro stessi. Per sempre. Rinchiusi, intrappolati fra l’ombra e l’ora, esiliati in un luogo inaccessibile, tra il letto e il destino, che esisteva soltanto nei sogni. O nei peggiori incubi.

Josefine affondò gli occhi nei suoi, Heinrich li sentì penetrare a fondo, passarlo da parte a parte, e rabbrividì. Erano come artigli, stiletti affilati che straziavano la sua carne. Sentiva tutto il suo dolore, lo sentiva forte, nelle viscere e nel cuore. La strinse fra le braccia e sentì che tremava.

La stanza era nuda e silenziosa. Desolazione e smarrimento. Odore della notte. Era quello il momento, egli lo sapeva, quando la tenebra sa di volgere al termine, di aver oltrepassato il suo equatore. Il cuore della notte. In quell’istante capì che aveva cominciato ad amarla. In quell’istante capì che aveva cominciato a morire.

Josefine chiuse gli occhi. Cullandosi l’uno nell’altra si scoprirono, sorprendendosi della reciproca scoperta.

Fuori pioveva. Il rumore della notte giungeva fino a loro dal filtro delle mura, dalle finestre cieche e sbarrate. Lei piangeva, sommessamente, come un canto. Piangeva di un dolore smarrito e ritrovato. Piangeva a occhi chiusi di una felicità che le faceva male, perché le era ignota. Piangeva, perché piangeva lui.

Era buio là fuori, oltre il baluardo delle mura, oltre il confine delle loro ombre. Pioveva a dirotto. Notte e pioggia cadevano insieme, inghiottite dalla terra avida e assetata. Le nubi cantavano con la loro voce greve. Tramontava la luna, figlia della notte.

Heinrich si svegliò all’improvviso. E lei non c’era più. Da quanto? Un’ora, due, forse tre? E già non ricordava più il suo volto. Ebbe paura di averla persa per sempre.

Gli passarono davanti migliaia di volti di donne, ma quello che cercava non riusciva a trovarlo. Il suo viso era come se fosse composto da tutti i tipi di occhi, di orecchie, di nasi e di bocche del mondo. E tutte le sfumature di iridi e di capelli e di pelle di questo mondo sfilarono davanti ai suoi occhi. Ma essendo il volto di tutte le donne, non era il volto di nessuna donna.

E ogni volta che pensava a lei, il suo viso era soltanto una macchia confusa.



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