martedì 20 settembre 2016

Hotel Vasteland - Capitolo VIII Prima parte




VIII

(Prima parte)


La notte volgeva al termine e il cielo si faceva sempre più chiaro a est. Josefine rabbrividì sotto il cappotto di Heinrich, lui le aveva tenuto la mano per tutto il tempo. Le strade fluivano deserte e silenziose sotto le ruote.

Il sole si levò fra le brume e prese ad arrancare verso la volta plumbea del cielo. Josefine, stremata, si era assopita reclinando il capo sulla sua spalla. Heinrich le liberò la fronte dai capelli. Dormiva come una bambina. Sulle sue palpebre si riflettevano immagini di sogni vividi e provvisori. Il pallido sole continuava la scalata verso lo zenit, il cielo e la terra si fondevano nella luce color del fango. Sorgeva un giorno rancido, putrefatto.

Heinrich ripensò a un sogno che aveva fatto. Sembrava un sogno ma non lo era. Era un giorno reale, un giorno fuori dal comune, ma così sbiadito e distante che sembrava appartenere ormai a un’era remota. Eppure, era trascorso soltanto un mese. Era una bella giornata di primavera e Colonia mostrava i suoi gioielli alla sua tenera luce. I profili degli edifici erano inondati di giallo cadmio e sui vetri delle finestre, il riflesso del sole era quasi insopportabile. Passeggiava per le strade della sua città, con il cuore leggero e palpitante di un giovane viaggiatore. Era tornato dopo molti mesi. Il suo corpo era fasciato da una divisa blu cobalto e il berretto inalberava l’aquila con l’antico simbolo del sole. Una ferita lunga e sottile, che partiva dalla base del femore e si apriva sulla sommità del ginocchio, gli aveva regalato molti giorni di ospedale e quel ritorno.

La città era rimasta come l’aveva lasciata quando era partito, essa si risvegliava lentamente, svogliata e intorpidita, ai suoi occhi. Aveva cercato subito la sua casa, ma aveva trovato la porta chiusa. Nessuno dei familiari era stato informato del suo arrivo.

Egli si pavoneggiava gonfiando il petto sotto la divisa e ammirando il suo riflesso nelle vetrine del centro. Erano linde e addobbate con cura, con fiori e lustrini e velluti, ma qualcosa stonava. Non c’erano le merci che avrebbero dovuto esporre e quel vuoto faceva male agli occhi, si faceva strada dentro le pupille roteando e vibrando con furia. Sentì che gli stava arrivando un gran mal di testa.

In quell’istante la vide.

Risaliva la strada venendogli incontro. Non seppe dire in seguito cosa lo colpì di lei, forse gli occhi, il suo sguardo particolare, oppure il volto, giovane ma al tempo stesso antico, come quello di una regina medievale. Incontrandosi spalla a spalla sul marciapiede, incrociarono lo sguardo per un breve istante, i suoi capelli lo sfiorarono, poi proseguirono il cammino, ognuno per la sua strada. Heinrich si fermò qualche centinaio di metri più avanti. Riecco il suo profumo, anche a quella distanza, era un aroma dolce e delicato, un sentore vagamente esotico. Doveva tornare sui suoi passi, doveva raggiungerla. E si voltò.

Era stata la vacuità del suo sguardo a colpirlo. Una sorta di vuoto nell’azzurro delle iridi. Ne ebbe quasi timore, ma sentì che doveva seguirla. C’era qualcosa in quello sguardo, in quegli occhi, c’era qualcosa che non riusciva a comprendere. Doveva tornare da lei.

Ma lei era lontana, a stento indovinava il suo profilo tra la folla e scoprì con stupore di non riuscire a ricordare il suo volto. I suoi lineamenti erano un mistero ammantato di ombre, il suo viso gli appariva multiforme e cangiante, come il volto triplice della luna e, come Selene, splendeva nella notte soltanto per lui. Ma Selene era lontana, tanto che temé di non poterla raggiungere.

«Mi scusi.»

Lei trasalì e si voltò.

Heinrich rimase a guardarla, senza poter profferire parola. La sua bellezza lo aveva preso alla sprovvista. Era quasi insopportabile.

Erano fermi all’ingresso di un palazzo, egli ne approfittò per lanciare un’occhiata all’interno. L’androne era inondato dalla luce e dove avrebbe dovuto esserci il pieno, c’era il vuoto. L’edificio era sventrato e non ne rimaneva che l’elegante facciata, intatta, che nascondeva un orrido e desolante groviglio di armature contorte e travi annerite dalle fiamme.

«Ci conosciamo per caso?» chiese con labbra rosee e piene come un frutto maturo.

«No, non credo, anche se mi sembra di conoscerla.» Heinrich si accorse che tremava.

«Che razza di risposta sarebbe?» Inarcò un sopracciglio a rimarcare la sua irritazione. Era irresistibile.

Egli capì che scrutava con ansia la sua divisa. «Mi perdoni, non volevo importunarla.»

«Ma insomma, cosa vuole da me?»

«Glielo dirò accompagnandola nella sua passeggiata. Se me lo consente…»

Per tutta risposta lei riprese a camminare. Heinrich la seguì, fiero di continuare il cammino accanto a quella donna, come se fosse un animale raro, ma al tempo stesso, ne aveva timore. Quella donna gli destava preoccupazione, gli provocava un curioso effetto di fascinazione e inquietudine, una ridda di emozioni contrastanti. S’incantò a guardarla e rimase un po’ indietro. Perché si sentiva come un calzino rovesciato, perché sentiva pulsare così forte il suo cuore? Perché si sentiva uno stupido in uniforme? Più la guardava, meno ci si raccapezzava. E intanto nessuna risposta trapelava dal suo viso. È un’arte difficile dedurre dai volti altrui le nostre emozioni.

A spasso con lei, Heinrich si rese conto che la città non era più la stessa. All’improvviso si aprivano spazi immensi, slarghi fra le strade e i palazzi, che non ricordava di avere mai visto. Ben presto comprese che non erano state inaugurate nuove piazze in sua assenza. I bombardamenti avevano diradato gli edifici, alterando i profili familiari della sua città, tanto che non riconobbe il quartiere in cui si trovavano. Colonia era andata a fuoco e ora gli mostrava un po’ alla volta le sue ferite. Tutta la baldanza e l’allegria del mattino erano gradualmente svanite e avevano lasciato il posto a una viva apprensione. Il cuore gli si strinse in una morsa d’angoscia. Sperò che i suoi genitori fossero salvi e in buona salute.

«Le chiedo scusa, non mi sono ancora presentato. Sono proprio un villano.» Le porse la mano. «Mi chiamo Heinrich.»

«Josefine» disse lei con un tono di voce così basso che a stento fu udito.

Camminarono un tratto in silenzio, durante il quale si accorse che lei gli lanciava rapidi sguardi in tralice, lampi azzurri fra le ciocche di capelli, ma quando lui provava a cercare i suoi occhi, ella distoglieva lo sguardo.

«Questi sono gradi da ufficiale?» Josefine indicò le maniche della divisa.

«Le mie sudate strisce d’oro da tenente di vascello.»

«È in città per una licenza?»

«Sono stato ferito e mi hanno concesso di tornare a casa per qualche giorno, a completare la guarigione» fece Heinrich toccandosi la coscia. La ferita prese a fargli male proprio in quell’istante.

«Questo è il nastro dei feriti di guerra.» Mostrò la bianca decorazione che spiccava sul blu oltremare della giacca.

«Mi dispiace» fece lei. «Ma vedo che ora sta bene. Com’è successo?»

La squadra navale scivolava maestosa, superba, invincibile sulle acque verdi e placide del Mare del Nord. Dieci cacciatorpediniere fendevano il mare, grigi d’acciaio scintillante. Presto i loro ventri di metallo avrebbero vomitato migliaia di corpi estranei sulle spiagge di Scandinavia. Soldati in feldgrau, armati fino ai denti. L’invasione stava per cominciare.

Dal ponte di comando della Heidkamp si dominava tutto il mare. Heinrich si sentiva al sicuro lassù. Le navi filavano leste lasciandosi dietro lunghe scie e plasmando nell’acqua cupi vortici che stentavano a richiudersi. Già si scorgeva la terra al confine del fatuo orizzonte, il mare si apriva in miriadi di fiordi, sui quali si levavano alte e ripide vette, le cime ricoperte di neve.

L’aria era gelida e tutto era pronto. Ogni cosa al suo posto, le navi, i cannoni, gli sguardi entusiasti dei soldati. Il nocchiere teneva la rotta con mani salde, stringendo forte fra le dita la ruota del timone. Niente poteva fermarli, niente. E la terra del tuono e del ghiaccio sarebbe stata loro.

Le navi si disposero in formazione aperta e si avvicinarono alla costa. In quel punto la terra rientrava in una lunga e stretta baia che il mare penetrava in profondità. La Heidkamp e la Diether von Roeder allinearono i larghi fianchi come donne baldanzose e intraprendenti, disponendosi alle operazioni di sbarco. Il resto della squadra navale si schierò al largo a formare un velo di protezione. E già sulle navi incombevano torreggianti e screziate le erte creste, come antiche divinità a guardia del fiordo, e già le loro ombre allungavano dita nere sulle coperte e le sovrastrutture dei vascelli, che si udirono colpi di cannone.

Una nave da guerra norvegese era sbucata dal nulla e aveva preso a cannoneggiare dall’ombra le navi. Altri vascelli apparvero come fantasmi all’imboccatura della stretta baia e aprirono il fuoco.

Lampi accecanti e fiammate rossastre spuntarono sulla bocca dei cannoni e l’aria prese a vibrare. Proiettili di grosso calibro sibilavano da ogni parte. Le bordate erano fitte e ben raggruppate. Una salva raggiunse l’acqua a breve distanza dalla Heidkamp e la fece traballare. Heinrich si aggrappò alle strutture della plancia per non cadere. Il comandante urlava ordini a destra e sinistra. Ormai erano stati scoperti.

I motori del cacciatorpediniere ruggirono, salendo di giri con profondi lamenti e la nave manovrò per rispondere al fuoco. Esplosioni tremende la fecero tremare fin nelle stive. I suoi cannoni avevano preso a vomitare fiamme e piombo sui vascelli nemici.

Vi fu un lampo abbagliante, come se fosse caduto il sole in quelle acque nere e un’esplosione folle, gigantesca, inconcepibile gli strappò quasi via i timpani.

La Diether von Roeder era stata colpita. Il ponte era stato spazzato via e al suo posto vi era un’enorme voragine scura, da cui salivano gigantesche lingue di fuoco. Vide marinai in fiamme buttarsi in mare dalle fiancate della nave, vide corpi a pezzi, brandelli di persone, uomini divisi a metà e le due parti scagliate a grande distanza l’una dall’altra, una fine illogica.

Heinrich non sentiva più nulla. Tutto si svolgeva nel più assurdo silenzio.

La nave ardeva nel suo inferno privato ed era squassata da esplosioni spaventose. Le strutture metalliche gemevano e sfrigolavano nel calore. Poi, lo scafo si spezzò, i due tronconi si levarono al cielo come per profferire oscure minacce e colarono a picco.

L’acqua era ricoperta di cadaveri. Soldati e marinai, con le membra devastate e i volti sfigurati, galleggiavano insieme a rottami incendiati di ogni specie.

Josefine non osava fiatare. Quella storia aveva sconfitto ogni suo piano di difesa, lo sconosciuto aveva vinto. Non le restava che arrendersi e lasciarsi trafiggere dalle emozioni. Sul suo volto, bello e altero, si frangevano le ondate impetuose delle sue parole. Presto cominciarono a scendere le lacrime. Heinrich credeva di essere un buon narratore e perciò continuò a raccontare.

Chiuso nel ponte di comando, non ebbe neppure il tempo di rabbrividire di fronte a quel disastro, che un’esplosione immane parve perforare lo scafo da parte a parte. Heinrich fu scagliato via. Si rialzò sconvolto nel fumo nero, la coscia sinistra gli doleva e sanguinava copiosamente, ma si sporse fuori per vedere cosa fosse accaduto. La Heidkamp era stata centrata. Dalla poppa si levavano alte fiamme e urla disumane. Si udirono miriadi di esplosioni in rapida successione e poi detonazioni più gravi di tono che scossero la nave fino alla chiglia. Senza dubbio era stato colpito il deposito delle munizioni, che stavano deflagrando l’una dopo l’altra. Heinrich si rese conto solo allora che il ponte di comando era pieno di cadaveri. Perfino il timoniere in piedi al suo posto era morto, anche se stringeva ancora il timone fra le dita bruciacchiate. Si slanciò alla porta di dritta, ma questa si era fusa con la struttura della plancia e non voleva saperne di aprirsi. Cercò allora di andare dall’altra parte, ma inciampò e cadde fra i morti. Volti dilaniati, che non riconosceva più, lo fissavano con cattiveria, bocche orrendamente spalancate sghignazzavano il loro odio perché era ancora in vita. Si rialzò in piedi, ma cadde ancora. Una mano si era chiusa intorno alla sua caviglia e lo tratteneva. La stretta era forte e lottò per liberarsene, senza capire se chi lo teneva fosse ancora in vita o soltanto un povero corpo irrigidito dal rigore della morte che voleva trascinarlo in fondo al mare insieme a lui.

Solo con enormi sforzi riuscì a liberarsi e fuggire verso un rettangolo di luce, che si rivelò la porta di babordo. La luce della salvezza. La nave si era inclinata da quel lato e quel chiarore veniva dal mare. Oltrepassato il portello, scivolò nelle acque gelide e scure e perse i sensi.

Quando si risvegliò, la Heidkamp era affondata e seppe che era uno dei pochissimi sopravvissuti. Non si era salvato neppure il comandante. Egli, invece, era stato ripescato da una nave che era scampata al disastro. Aveva perso molto sangue, la sua gamba era in condizioni pietose e sulle prime l’avevano addirittura dato per morto, ma il medico di bordo si era accorto che un debole respiro albergava ancora in lui e l’aveva restituito alla vita.

L’occupazione della Norvegia era fallita e i canti allegri e baldanzosi della truppa si erano tramutati in carmi di morte.



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