sabato 30 gennaio 2016

Saper sapere




Quando sento la parola ‘cultura’ tolgo la sicura alla mia Browning” disse Hanns Johst, drammaturgo nazista.
E io proprio di questo voglio parlare, della cultura. Di sapere cioè quello che non serve a niente.
E' utile?
O non è piuttosto uno spreco di energie?
Parrebbe di si, secondo l'Ecclesiaste.
Ed ho applicato il cuore a cercare e investigare tutto ciò che si fa sotto il cielo. Ed ecco, tutto è vanità e un correr dietro al vento. Ciò che è storto non può esser raddrizzato, ciò che manca non può essere contato. Poichè dov'è molta sapienza v'è molto affanno e chi accresce la sua scienza, accresce il suo dolore (Vanità della sapienza)
Ma davvero sapere è inutile, accresce soltanto la vanità e la superbia?
Allora, mi chiedo: è ancora utile passare gli anni della giovinezza, gli anni migliori, sui libri? O è soltanto una perdita di tempo, uno spreco di risorse e di energie?
Sentite cosa ne pensa Eric Schmidt, a.d. di Google: “Se tutto ciò a cui tenete sono i soldi, andate all’università. Se tutto ciò a cui tenete è la cultura e la creatività, andate all’università. Se tutto ciò a cui tenete è divertirvi, andate all’università”.
Se, invece, dopo essere andati all’università volete lavorare, andate all’estero, dico io.
Per andare all’università, tuttavia, è necessario qualcosa che diamo per scontato e che in realtà è molto difficile da praticare: imparare a imparare: apprendere e padroneggiare il metodo di combinare insieme le informazioni più disparate e utilizzarle al volo. Studiare insegna che non c’è mai una sola verità, ma che la verità stessa è molteplice e multiforme, ci fa capire che non c’è mai un solo punto di vista, ma ce ne sono molti, forse infiniti, e, soprattutto, che ci dev’essere sempre un’altra possibilità.
Imparare a imparare, significa essere curiosi, non fermarsi alla superficie delle cose, ma andare a fondo. Sapere ci dà l’opportunità di stare in un gruppo e condurlo se è necessario, ma anche lasciarsi condurre da qualcun altro, se ha intuito un’altra possibilità, migliore della nostra.
Ho sempre sostenuto che gli studi universitari non portano vera cultura, ma solo sapere tecnico, scientifico e specializzazione. La vera cultura è altro: è il piacere di scoprire e conoscere le cose più disparate, di appassionarsi a determinati fatti o argomenti, anche se non servono assolutamente a niente o non possono essere messi in pratica, oppure utilizzati nella vita di tutti i giorni. Così, una persona con la quinta elementare può essere più acculturata di una persona con la laurea in fisica nucleare, semplicemente perché ha più curiosità nei confronti della vita, del mondo, della storia e del pensiero e la soddisfa attraverso i libri, le manifestazioni e le rappresentazioni artistiche e in ogni altro forma possibile.
Allo stesso modo, ho sempre creduto che il fatto di aver frequentato l’università ed essersi presi una laurea non sia una garanzia per la persona che l’ha conseguita, sotto tutti i punti di vista, soggettivo, caratteriale, ma soprattutto etico e morale. Anzi, ritenevo e ritengo che la laurea sia un catalizzatore di personalità, nel senso che se un individuo ha delle buone qualità di base, come ad esempio, il senso di giustizia e di equità, la lealtà, la capacità di mediazione e la saggezza, la laurea non farà altro che aumentarle queste qualità. Se invece, è uno stronzo, egoista, opportunista, intollerante, la laurea conseguita non lo aiuterà certo a migliorare, ma non farà che aumentare tali caratteristiche, rendendolo ancora più stronzo, ancora più egoista, ancora più intollerante…
Ho scoperto soltanto da poco che i miei pensieri non erano originali ma erano già stati elaborati quasi cento anni prima da Gaetano Salvemini, il grande meridionalista e socialista, allievo a sua volta di un altro grande meridionalista e socialista, Pasquale Villari.
Ne La sinistra e la questione meridionale ritiene infatti che la cultura sia il “superfluo indispensabile, l’insieme di tutte quelle conoscenze che non servono a nulla, ma di cui non è lecito fare a meno”.
Ecco la capacità di sintesi che mi manca, sentite come scorre senza intoppi questa frase. E' superba ed essenziale, non si può aggiungere altro! Ma Salvemini, evidentemente non ancora soddisfatto, vi aggiunge una citazione – non sono riuscito a scoprire di chi -, secondo la quale, la cultura non è altro “ciò che resta in noi dopo che abbiamo dimenticato tutto quello che avevamo imparato”; quello che rimane, cioè, quando la mente si sgombra di tutte le svariate nozioni, informazioni ed elementi che abbiamo appreso e continuamente apprendiamo nel corso della vita e resta soltanto il solco che hanno impresso nel nostro animo quelle idee, quelle nozioni, resta soltanto la scia che hanno lasciato nelle nostre intelligenze. Ma ci basta incamminarci lungo quel solco, ci basta seguirla quella scia, e torneremo alle idee e alle conoscenze a loro collegate, oppure ad altre, del tutto nuove.
Da tutto questo deriva, secondo Salvemini, il fatto che un contadino che sappia appena leggere e scrivere, possa diventare un uomo di cultura, perché possiede gli strumenti per addentrarsi nel sapere, mentre un laureato rischia seriamente di essere un esimio ignorante, se, pur disponendo degli strumenti per indagare il sapere, si è fermato al tecnicismo scientifico – specialistico che gli ha apportato il suo titolo di studio, senza andare mai oltre.
In verità, dal primo all’ultimo respiro, non smettiamo mai d’imparare.
E rifuggiamo l’ignoranza, perchè nasce da un equivoco di fondo.
L’illusione di sapere.

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