venerdì 5 febbraio 2016

Appocundria




Una città addormentata nell'afa pomeridiana, l'oceano silenzioso è una linea innocua all'orizzonte e le voci del bairro si stemperano nella calura. L'entrata del Tejo è sorvegliata da fragili colonne d'Ercole che accolgono, anziché respingere, tutti i popoli del mare. Un vecchio suona la chitarra, ma in un modo così strano, che è come se la chitarra suonasse lui. I suoi occhi si perdono nel blu e il suo sguardo si offusca. Il fado è destino e mistero.
La conosco quella canzone. E' Ao longe o mar.
Lui la chiamerebbe saudade, ma nella mia lingua non c'è maniera di dirlo, se non ricorrendo all'idioma napoletano.
Appocundria.
Confondo Napoli con Lisbona e mi pare quasi di veder zampettare Fernando Pessoa in fondo a via Toledo, invece che in Praca do Comercio, il salotto buono della città affacciato sul mare, o seduto al suo tavolino alla Brasileira. La stessa linea blu che pare innocua all'orizzonte, anche se da una parte si chiama Tirreno e dall'altra Oceano.
Appocundria pare che sia la dialettizzazione (il neologismo è mio) di ipocondria, la sindrome del malato immaginario. Molière la conosceva bene. Ma io sto parlando di qualcos'altro. Del desiderio di non si sa che, della malinconia di quel che non si è vissuto, della nostalgia del futuro. Della tristezza senza motivo. E' qualcosa d'indefinito, incompiuto, e che non si compirà.
Questo male dentro, un dolore appiccicoso e dolce come il miele, scivola fra le dita e lo lecco. L'assenza dei suoi occhi, la sua voce dentro la testa, la sua figura che svanisce e ricompare, va e viene come le onde di questo Mare Oceano che ci unisce e ci separa e mi fa naufragare. Le regole della sua assenza le conosco bene, come un esperto marinaio conosce i venti e le maree.
Voglio annegare nei suoi occhi, affondare nel suo ventre, colare a picco. In fondo al mare che si apre fra le sue gambe.
L'appocundria so coniugarla alla perfezione in tutti i tempi tranne che il futuro. Ecco, la depressione, che non conosco, ha sensazioni più vigorose, corporee, carnali. Citerò la felice – si fa per dire – intuizione di un amico che ne soffriva. E' un vortice di rabbia che si nutre di dolore e risucchia la vita. Ma è liquida questa rabbia, mentre tu sei un mucchio di carne informe, un mollusco privo di scheletro, inadatto al volo, incapace di vivere. E sei solo in una solitudine piena di gente.
L'appocundria non ha una spiegazione, è qualcosa che c'è e non c'è, sfugge dalle mani, dalle regole, da ogni tentativo di risoluzione. Vita che va, tempo che viene, niente è più come prima. Ma io sono ancora qui.
Da giovane il tempo era qualcosa d'indefinito, d'incompiuto, che veleggiava sulla mia vita con indolenza senza risolversi ad approdare al porto del destino. Ma quel che doveva accadere accadde nel breve arco di un'estate. E fummo spazzati via.
L'appocundria è maneggiare un fiore raro e delicato, e scoprire di non saperlo fare. L'appocundria è desiderare qualcosa che non potrai mai avere. L'appocundria è quella volta che volevo addomesticare la lupa e finii per inselvatichirmi io.
L'appocundria è quando il sogno mi si sgretolò in mano mentre si stava avverando.

1 commento:

  1. Huzun (con il doppio punto sulla prima u) è un vocabolo turco che indica quella sorda e cupa malinconia che contempla le mura in rovina e la fine di tutte le cose, ma apre la strada a un vago futuro. Insomma, la versione in salsa ottomana, al sole del Corno d'Oro e all'ombra della Sublime Porta, della saudade e dell'appocundria.

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