domenica 13 dicembre 2015

Il disco


 

O marciano encontrou-me na rua e teve mèdo de minha impossibilidade humana. Como pode existir, pensou consigo, um ser que no existir poe tamanha anulacao de existència?

Il marziano mi ha incontrato per strada e si è spaventato della mia assurdità di umano. Come può esistere, ha pensato fra sé, un essere che nell’esistere ripone un così grande annullamento dell’esistenza?

(Science fiction, Carlos Drummond de Andrade)

 

 

 

Il disco si posò al centro della radura. Lucida sfericità di un metallo puro, primordiale. Incuriosito, buttai a terra la bici e mi avvicinai. Non avevo paura, non provavo nulla, non sentivo niente di niente. Ero soltanto incuriosito. Punto.

Dalla strana macchina veniva un brusio. Non era un rumore solo, era come una sovrapposizione di tanti rumori della medesima frequenza. Come un ronzio d’alveare.

Mi avvicinai fino al punto di scorgere i particolari della strana apparizione. Nascosto dietro un cespuglio, mi accorsi che la superficie non era affatto levigata come mi era sembrato in un primo momento, ma costellata di segni strani e arcani come geroglifici dell’antico Egitto.

Il disco smise di ronzare e s’innalzò nell’aria quieta della sera un dispositivo simile a un periscopio, che con un mesto cigolare prese a scrutare la campagna tutt’intorno; finalmente, si ritrasse e si aprì una botola su una torretta che sovrastava l’apparecchio, simile a quella dei sommergibili.

Ne venne fuori un omino buffo e curioso, vestito di verde e con un cappello a punta sulla testa. Lo strano essere saltò giù dal disco con una grazia e un’agilità inaspettate.

Uscii dal cespuglio e mi avvicinai. Il timore, se mai ne avevo avuto, era scomparso. Lo stravagante personaggio mi vide e si avvicinò. Non sembrava affatto un essere che aveva attraversato le galassie, un’entità superiore proveniente da distanze spaventose. Il tipo al cui cospetto mi presentai, pareva più un folletto delle antiche leggende.

Sorrise – descrivo così una deformazione del suo volto che interpretai come tale – e si sprofondò in un inchino degno d’altri luoghi e altri tempi.

“Buonasera” dissi non sapendo cosa dire, rendendomi subito conto che era la parola più stupida e banale che potessi pronunciare. Ma sfido voi. Cos’avreste detto così, su due piedi, a un abitante di un altro mondo?

Il suo viso divenne serio, la deformazione svanì.

Scosse la testa e allungò una mano verso di me. Anch’io feci lo stesso. Toccai la punta di una delle sue dita - ne aveva ben sei - e avvertii una vibrazione, una sorta di scossa elettrica. A dire il vero, qualcosa provò anche lui, perché rabbrividimmo nello stesso istante. Allora il suo viso tornò ancora a deformarsi. E anche il mio.

“Buonasera” ripetei “E… benvenuto sulla Terra.”

“Liximini omyn gag aquìk.”

“?”

“Yvot krah kwolf djyab!”

Nessuno mi aveva parlato così prima d’allora. Non capivo se mi stesse rivolgendo un indirizzo di saluto oppure, come sospettavo dal tono della sua voce, un’invettiva o qualcosa di simile. Mi parve che una tempesta di emozioni contrapposte si stesse scatenando nel mio cervello e una sorta di distonia emotiva s’impadronì di me. Dinanzi a lui mi sentii difettoso, debole, inadeguato. E rimasi interdetto.

L’omino se ne accorse e alquanto spazientito, mi prese per mano e mi condusse sotto il disco.  

            L’apparecchio si reggeva su tre zampe telescopiche, la superficie inferiore dello scafo aveva un colore rivoltante, come il nauseabondo addome di un insetto a zampe all’aria e mi vennero conati di vomito. L’extraterrestre sfiorò in un punto preciso la convessità del disco e, come per magia, un portello che sembrava non esserci si aprì e ne venne fuori un groviglio di tubi, giunzioni, cavi e valvole. E anche del fumo nero. L’omino estrasse da una tasca della sua tuta verde d’Irlanda una specie di cacciavite a tre punte e prese ad armeggiare in mezzo al ciarpame.

             Ne estrasse, dopo qualche tempo, un cilindro argenteo e me lo mostrò. Lo presi, ma mi scottai subito le dita, la punta dell’oggetto metallico era bruciacchiata. Me lo rigirai più volte fra le mani e lo esaminai a fondo. Sembrava qualcosa di molto familiare.

            “Tutto qua?” dissi “Ti si è bruciata una candela?”

            L’omino sorrise, al modo suo.

Non v’era altro tempo da perdere. Inforcai la bicicletta e mi misi a pestare sui pedali verso il paese più vicino.

La notte giunse improvvisa, tetra, sepolcrale. Quasi non vedevo la strada del ritorno. Ma l’omino in verde era ancora là ad attendermi. Impaziente, misurava a grandi passi la circonferenza del suo disco e, a giudicare dal solco nell’erba intorno all’apparecchio, doveva averla calcolata diverse volte nell’attesa del mio ritorno. Ma avevo quello di cui aveva bisogno.

Prese la candela nuova con furia, quasi me la strappò dalle mani e se l’avvicinò agli occhi di un verde sconosciuto a questa terra.

“B… o… s… c…” prese a sillabare.

“E’ anche il nome di un pittore” aggiunsi e mimai nel vuoto la forma di un quadro, ma mi guardò senza comprendere e con una scrollata di spalle avvitò la candela nuova al posto di quella bruciata. Si allontanò di qualche passo e si mise a osservare da lontano il congegno, come si ammira un capolavoro. Lo raggiunsi anch’io e guardai.

Meraviglia delle meraviglie, ora il marchingegno che prima era un groviglio inestricabile di tubature, cavi, valvole e altre diavolerie incomprensibili era una macchina ordinata e perfetta. Nelle sue linee traspariva l’armonia delle alte intelligenze che l’avevano progettata e costruita.

Dal caos al cosmòs con un giro di cacciavite.

Era il momento di ripartire. Io, impacciato, al modo terrestre, lui, sicuro, al modo extraterrestre, in qualche modo ci stringemmo la mano. E risentimmo entrambi quel breve fremito, quella sorta di energia che ci aveva pervaso le membra al principio del nostro incontro.

E non credetti ai miei occhi. Quello strano essere arse di luce. Trasfigurò in una fiamma scarlatta che ardeva sopra la sua testa e illuminava l’oscurità circostante. Stava ridendo, rideva e rideva, al modo suo, e non si fermava più.

Saltò agilmente a bordo e richiuse la torretta da sommergibile. Da qualche parte, all’interno del disco, l’omino dovette aver azionato qualche comando e infatti l’apparecchio si animò e prese a vibrare, dalle sue viscere di metallo si risvegliò l’alveare e ronzando, si apprestò a librare nel cielo.

Lo guardai con ammirazione.

Il disco si sollevò sul bosco, il suo volo era salutato dal fruscio del vento fra gli alberi. Sfiorò le cime delle colline, le superò e si allontanò in un guizzo di luce nelle tenebre.

Io non so parlare.

Non ho mai le parole giuste al momento giusto. Quelle appropriate mi vengono sempre nei momenti sbagliati, quando è troppo tardi.

“Aspetta amico” avrei voluto dirgli “Aspetta. Non ti ho parlato della profondità della mia solitudine, della vastità dei miei silenzi, dell’immensità della mia disperazione.”

Allargai le braccia alla notte, allo stormire del vento tra le foglie, ai raggi di luna che danzavano sulle ruote della mia bicicletta, facendole sembrare d’argento vivo.

“E tu cosa provi? Non ti senti mai solo, rinchiuso nel tuo disco di metallo a solcare cieli neri ricamati di stelle, non provi mai questo vuoto nel cuore? Non hai mai paura del buio, del nulla, di te stesso?”

Ma era troppo tardi. Stavo parlando agli usignoli, alle colline, alle stelle.

E le stelle non risposero.

“Addio, amico mio.”

Nella valle inondata dalla luce della luna ero rimasto solo. Le allodole gemevano, le capinere singhiozzavano, io tacevo. Mai più avrei rivisto quell’essere di luce.

Mi rifiutai di credere per molto tempo a quell’apparizione. A quarant’anni e qualche acciacco sono ormai ben poche le cose in cui credo. Ma l’incontro con quella strana creatura aveva prodotto un singolare cambiamento in me.

Fino ad allora mi ero considerato una persona piena di sensibilità. Ma essere sensibili non è un buon affare, è come andare in giro per il mondo senza la pelle addosso. Ogni cosa fa male, ogni cosa ferisce e penetra a fondo. Il mio animo era permeato da un’ordinaria idiozia e dabbenaggine, ero stato una sorta di dostoevskjiano idiota.

Fino ad allora.

Non mi ero reso conto della mia impossibilità umana, del mio non esistere, del mio non voler esistere. Ero come un mai nato, non sapevo nulla. Non sapevo vivere. Devo essere parso un personaggio molto singolare e perfino paradossale all’amico venuto dallo spazio. Un essere vivente che non sa vivere.

Fino ad allora.

Era giunto il tempo di riprendere saldamente in pugno le redini della mia vita. Ero stato in panchina per tutta la partita. Mi sentii come la riserva che diventa titolare. Ed ero finalmente pronto a giocare.

E questa è la storia che volevo raccontare. O è tutto vero, o è tutto falso. Oppure, in parte vero e in parte no.

E questa, parola mia, è la verità.

 

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