sabato 26 marzo 2016

Il segreto della stanza 42


Portami di sotto, dove tutto è più reale. Portami dentro stanze vuote ad ascoltare i vostri silenzi. Portami di sotto e chiudimi dentro la stanza dove manca l'aria, dove manca l'aria, manca l'aria, manca l'aria...
E poi prendi i miei occhi, ecco i miei neri occhi, poiché dove andremo non serviranno.
Ecco, ci risiamo. Il passo lento e cadenzato si allontana dalla mia porta e il fioco lume non proietta più ombre. L'ora di cena è passata da un pezzo. Bucce marce e pezzi di pane ammuffito li ho raccolti nel piatto. Fra un po' verranno a riprenderseli i rimasugli di quello che non può certo chiamarsi un pasto decente. Il sole dev'essere tramontato col suo solito corredo di incendi e silenzi. Quanto mi mancano i tramonti. E le albe. Sono un cieco nell'ombra, una talpa nella sua tana, un uccello notturno rinchiuso nella gabbia della notte, le cui sbarre sono colonne di luce che feriscono le tenebre.
Rabbrividisco al chiarore gelato di una luce al neon che ronza come un insetto. Tra poco la spegneranno e sarà buio pesto. Allora l'oscurità sarà invadente e pesante quanto una colata di cemento e m'impedirà di respirare, e il silenzio sarà assoluto.
E riconoscerò quell'odore, l'unico che si sente qui sotto. L’odore della terra. Profumo di terra inzuppata, grassa, nera. Radici, terriccio, vermi. Nero baratro nel quale affonderò un giorno, con un abbraccio. La terra mi riempie gli occhi, la bocca, il naso. E devo avere anche il cervello pieno di terriccio, perchè i pensieri mi s'inceppano di frequente. E' difficile pensare al buio, è difficile anche respirare qui sotto, figuriamoci pensare.
Se volessi potrei accendere la torcia che avevo trovato nella mia stanza il primo giorno. Chissà a chi apparteneva? Ma non sono sicuro che funzioni e, anche se si accendesse, quanto durerebbe la sua luce prima di spirare per sempre? Anche se non la uso, la conservo come una reliquia. Qui sotto è la cosa più preziosa e il solo fatto di possederla, di possedere la luce, mi fa sentire ricco.
Quand'ero là fuori, scrivevo. Ma mi pare che siano passati cent'anni. Non so più se esiste ancora un Là Fuori, o se il Qui Dentro ha divorato il mondo, sbranato il sole, dilaniato la primavera e il buio sia ormai l'unica possibilità di esistere. Di continuare a vivere. Non so più come si fa, non so più impugnare una matita e tracciare segni sulla carta. Scrivere è nascondersi. Nascondersi agli occhi del mondo, della folla, della moltitudine. Almeno in questo ci sono riuscito.
Scrivere è pericoloso, le parole sono armi a doppio taglio. Un filo di lama per il significato apparente e formale e l'altro per le verità nascoste. Quelle che fanno male, quelle che possono anche uccidere. Scrivere? Nessuno lo fa più, ormai. Tanto nessuno legge, nessuno più si sobbarca quel rischio. Allora, perchè scrivere?
Devo essere qui da tanto, perchè mi pare ormai soltanto un sogno. Un sogno dal quale non riesco a svegliarmi. All'inizio ho cercato di contare i giorni, memorizzando quante volte si accendeva la luce per la cena. Sono arrivato a contarne fino a centosettanta, poi i giorni sono diventati tanti all'improvviso, e ho smesso.
Non mi ricordo neppure come sono finito qui sotto. Mi sono assopito dall'altra parte e mi sono risvegliato qui dentro una mattina. Una mattina? Ho consultato l'orologio, ma è uno strumento ambiguo, a queste profondità non penetra la luce del sole; tuttavia anche a quel passatempo ho dovuto presto rinunciare. In verità non sono sicuro che sia davvero passata l'ora di cena, potrebbe essere qualsiasi ora del giorno o della notte, ma a che vale saperlo? Non farebbe alcuna differenza.
Per ingannare il tempo ho imparato a contare. Se conto lentamente, fino a 1000 so che è passato un po' più di un quarto d'ora e se arrivo fino a 3.600 è trascorsa un'ora. Oltre non riesco, la mente si stanca e perdo il conto. Così, la mia vita si svolge nell'angusto confine di un'ora. Vivo un'ora alla volta, quando ho voglia di contare. Fra un conteggio e l'altro, la mia esistenza fluttua nell'oscurità senza tempo. E mi sembra di essere morto. Forse la morte è soltanto questo: assenza di luce e di tempo. Niente di cui avere timore. In confronto la vita è così spaventosa.
Qui è tutto così strano, ma col tempo ho fatto l'abitudine a questa stranezza, che mi pare ora la normalità, che ho l'impressione di aver sempre vissuto così, che la mia vita prima e la mia vita adesso, la mia vita fuori e la mia vita dentro siano state e siano ugualmente ambigue e improbabili. Ma c'è qualcosa che non va. Ho la sensazione che mi sfugga non so che.
Ma non sono lucido a sufficienza per comprenderlo. Quando mi sveglio, non sono affatto sicuro di esser desto, e quando mi addormento non so se sono davvero preda del sonno. Forse aleggio fra l'uno e l'altro stato, senza dormire mai e senza essere proprio sveglio. Un dormiveglia nell'incoscienza e nel buio. Ma tutto è così reale, tangibile. I passi che si allontanano nel corridoio, i rumori delle altre stanze, posso sentire perfino respirare dalla stanza che confina con la mia. Dunque non sono solo, anche se non ho mai visto nessuno. In verità, non vedo neanche chi mi serve il frugale banchetto. Odo un picchiettare lieve all'uscio, corro ad aprire, ma non c'è nessuno, sento solo passi allontanarsi in fretta e sul pavimento l'involto del pasto.
E scopro una fetta di pane in più, due cucchiai di minestra oltre il solito. Una mano misericordiosa? Qualcuno conserva ancora in sé uno sprazzo di umanità nel buio di queste segrete?
E' come una città, una tana, un alveare che si sviluppa su piani inclinati. Ogni cosa rotola verso il basso, sempre più a fondo, dove si annidano le miserie della notte e la tenebra senza fine.
Non so che darei per far cessare questa mia esistenza sotterranea.
Una gelida corrente d'aria sibila e s'insinua sotto la fessura della porta, turbina sul fondo della mia stanza, come gli spifferi di una notte d'inverno. E' aria pesante, viziata, piena di umidità, sa di acqua e fango. E' come un segreto vento sotterraneo che visita queste stanze e mi gela i piedi.
Tremo, fin dentro le mie ossa. Non so più neppure che faccia ho, se mi è cresciuta la barba o si sono allungati i capelli, se ho le orbite incavate o le guance paffute. E del colore dei miei occhi non serbo più alcun ricordo. Non ci sono specchi. Ma se anche ve ne fosse uno, la luce è così fioca che dubito avrebbe la forza di riflettermi sulla sua superficie.
Non parlo più. Ho scordato come si fa. Se non c'è nessuno ad ascoltare, parlare è inutile. E anche conversare con se stessi serve soltanto a rinnovare la noia e seccare la gola. E poi, io parlo solo di quello che so, non saprei discorrere delle cose che non conosco. Per questo, da quando sono qui, ho imparato a tacere. I miei silenzi sono profondi quanto la mia ignoranza. I miei silenzi sono più profondi di questo luogo. Ho provato a scoprire la verità, ma le ombre le fanno velo e le tenebre generano mostri. Meglio tacere.
Non credo di aver fatto qualcosa di sbagliato. Ho sempre fatto quello che mi hanno detto di fare. E continuo a farlo. Errori, colpe, peccati, io non ne conosco. Eppure sono qui.
Non so con esattezza, dicevo, come sono finito qui dentro. Non conservo ricordi, ma ho come l'impressione di essere comparso per puro caso nel preciso istante in cui ero atteso. In realtà, non è questo il verbo giusto. Ad attendermi non c'era nessuno. Come dicevo, qui sotto non ho incontrato anima viva. Anche se, da certi lamenti di notte, certi rumori striscianti lungo i corridoi, la pesantezza di passi sopra la mia testa, so di non esser solo. E quelle voci, appena sussurrate, che odo a stento, con quel tono speciale che le donne usano di notte fra loro. Ecco, non so come faccio a esserne sicuro perchè le percepisco appena, ma quelle voci chiamano il mio nome.
E in qualche modo mi risultano familiari. Se chiudo gli occhi mi rivedo nella mia cameretta da bambino, sotto le coperte in una notte di pioggia, e ascoltavo quelle voci, le stesse che sento ora, appena dall'altra parte del muro, a decidere il mio destino, allora come ora.
Ero infelice allora, sono infelice ora. A volte penso che non uscirò mai da questo buco. E se lo penso, il mio pensiero dura quanto l'eternità. In un modo o nell'altro siamo tutti condannati all'infelicità.
Là fuori è tutto vero, qui dentro è tutto falso. Le mani che tastano il mio viso, che sfiorano i miei occhi, che mi pizzicano le guance sono davvero le mie? Ed è mio questo corpo che sfiorano o è soltanto la pia illusione generata da un cervello che si ostina a credere di essere ancora in vita?
Se cerco di richiamare alla memoria le circostanze in cui sono precipitato qui in fondo, la mia mente si rifiuta di tornarvi. Forse è il momento in cui ho cominciato a capire, forse è l'istante in cui ho cominciato a morire e l'agonia di quell'attimo si disperde come un'eco nell'oscurità.
Ma io sono ancora qui, vivo e vegeto, a sperare contro ogni speranza, di tagliare la corda.
Alcuni giorni fa, era notte era giorno, non saprei dire, ho sentito uno scalpiccio, un rumore lieve, come di zolle di terra che si frantumano. Ho tastato il pavimento fino alla sorgente del rumore e ho scoperto un buco nel muro di terriccio. Dal foro, dal contorno irregolare, spirava una corrente d'aria fresca, l'ho sentita con le dita, l'ho annusata, non il gelido fiume d'aria che mi ghiaccia i piedi. E' aria pura. Ormai un lontano ricordo. Poi sotto le dita ho sentito dei filamenti lunghi e morbidi, ve ne erano alcuni sul pavimento e altri ancora dentro il piccolo foro. Li ho annusati ma non sono riuscito a riconoscerne l'odore.
Quando si è accesa la luce, ho scoperto una piccola talpa. Da dov'è venuta? Ho cercato di afferrarla ma lei, sbattendo contro le pareti, ha riguadagnato il suo buco ed è sparita così com'era arrivata. Ho aperto il pugno che stringeva i filamenti e riconoscendo quello che avevo sul palmo della mano ho riconosciuto anche il suo odore. Fili d'erba! La talpa se li è trascinati dietro impigliati alle zampe da qualche prato lassù. Lassù! Allora esiste ancora una terra su cui cresce l'erba, l'acqua che la nutre e un sole che le infonde il suo calore. Dio che buon odore! Mi ero dimenticato come odorasse l'erba. Allora si è riaccesa in me una nuova speranza. Se la talpa è arrivata fin qui, io posso arrivare fino alla sua tana, appena al di sotto della superficie e basterebbe rimuovere le zolle per poter sbucare con la testa nel campo dove crescono quegli steli d'erba che le si sono attaccati alle zampe. Basta solo allargare il buco, scavare con le mani una galleria più ampia, la terra è morbida e friabile, e seguire a ritroso la sua strada.
La luce si è spenta e scavo alla cieca come un pazzo. La terra s'infila sotto le unghie, ma continuo a scavare, di tanto in tanto incontro spuntoni di rocce taglienti che mi lacerano la pelle, il terriccio s'insinua nelle ferite e brucia, ma continuo a scavare. Dopo un'ora sono con le spalle e con la testa dentro il buco.
Ho la terra negli occhi e nelle orecchie. Ma continuo a scavare e a strisciare, come un grasso, lurido lombrico. La galleria è angusta e ogni respiro è una fatica colossale, come se un boa mi avvolgesse dentro le sue spire di terriccio. Non so quanto tempo è trascorso, quando un boato squarcia la notte, la terra trema e mi cade addosso, sommergendomi a ondate rabbiose.
Una sensazione fastidiosa in testa. Apro gli occhi. Devo essere svenuto. Sento di nuovo un contatto sgradevole sulla fronte. Cerco in tasca la torcia e l'accendo. Una mano mi punta in faccia il suo indice accusatore!
Il mio cuore pare volersi estirpare dal petto ed evadere dalla sua sede fisiologica e non si calma neppure quando capisco che quella mano era la mia. Sono caduto sotto la furia della frana e devo essere svenuto assumendo un'insolita postura, puntandomi in faccia il dito, come se mi autoaccusassi della mia fuga. Mi sono preso un bello spavento, lo ammetto, ma sono vivo.
Mi scuoto la terra di dosso e riemergo. Sputo terra, ho sapore di ferro in bocca. Ma per fortuna sono indenne. Provo a muovere qualche passo. L'oppressione delle pareti non mi schiaccia più le costole e posso respirare. Mi trovo in una sorta di radura sotterranea. Una frana ha forse fatto crollare un velo di roccia e aperto un varco. Questa vasta piazza nelle viscere della terra è punteggiata da macchie scure. Sono imbocchi di cunicoli. Talpe e altri misteriosi animali di questo mondo occulto devono aver lavorato per secoli, grattando con le loro zampette la terra di queste gallerie.
E ora che fare?
Ci sono centinaia di tunnel e non sono sicuro che sbuchino tutti in superficie. Se imbocco quello giusto, magari in pochi minuti rivedrò la luce del sole, ma se scelgo quello sbagliato potrei girare per anni sottoterra, senza emergere mai. Sepolto vivo.
Mentre m'interrogo se infilarmi a caso in una galleria, o se non sia meglio tornare indietro, qualcosa guizza all'apertura di un tunnel. E' veloce, ma la mia mano lo è di più. La avvicino agli occhi e dal pugno sbuca un musetto grigio e un paio di baffi. E' un topolino di campagna! E' il segnale che cercavo, vuol dire che siamo vicini alla superficie. Da qualche parte, sopra la mia testa, forse a non più di tre o quattro metri, un popolo d'alberi prospera su una nazione d'erba e foglie morte.
L'ingresso è un po' stretto, ma gratto alacremente le sue pareti e mi par d'essere anch'io una talpa all'opera nel suo elemento. Infilo la testa nel buco. La luce della torcia mi abbandona. Il buio fitto mi preme sugli occhi, fin quasi a farmeli schizzare fuori dalle orbite. Ma mi faccio coraggio e penetro lentamente e non senza apprensione nelle tenebre.
Raschio le strette pareti cercando di dilatarle, scavo e procedo, lentamente, ma procedo. E sono ancora un verme che striscia il ventre sulla fredda terra.
Ma c'è roccia qui, le mani mi fanno male e non riesco più a scavare. Devo indietreggiare e provare da un'altra parte. A volte per andare avanti bisogna tornare indietro.
L'idea è buona, trovo subito un filone di terra morbida, che aggredisco a piene mani. Un diaframma di terra si sbriciola in pochi istanti e mi ritrovo ancora nella galleria principale.
E' la strada giusta, sento un soffio d'aria fresca sul volto e, in fondo in fondo, lontanissimo, così lontano che sembra un sogno, un debole chiarore.
La luce aumenta man mano che avanzo, cresce e si dilata nell'atmosfera angusta e opprimente del cunicolo. Ma ecco, ci siamo, un ultimo colpo e la tana si scoperchia come una tomba.
Sono Fuori e sto respirando. Quest'aria fredda mi lacera la gola, mi brucia i polmoni. E' come nascere un'altra volta. Metto un passo dopo l'altro e comincio a camminare. Ho paura di sbattere, dopo i fatidici due metri della mia stanza, contro il muro di terra. Ma qui non c'è niente. Soltanto aria. Mi gira la testa e ho la nausea, come se mi avventurassi sull'orlo di un precipizio. Ma il fondo è solido e non ci sono voragini in attesa di fagocitarmi. Cammino, sempre più spedito. Mi fanno male le gambe, ma proseguo. Cammino, sempre più in fretta. Mi manca il fiato, non sono più abituato. Ma ora corro, corro sull'erba bagnata, nel prato fangoso, corro su una strada asfaltata.
Vedo in lontananza le luci di una città. Le luci ingrandiscono, crescono, si moltiplicano nutrendosi di oscurità, la tagliano a grandi fette, la dilaniano, la sbranano e la rigurgitano sotto forma di intensi bagliori. Ecco la città, una trappola fatta di luci multicolori, e in fondo alla trappola, la moltitudine senza destino, la folla multiforme, un mostro dalle molte teste pronto a catturarmi.
Volti, espressioni, occhi che mi fissano, teste, braccia e gambe e di colpo piombo dentro una solitudine che non conoscevo, una solitudine affollata; non ho più freddo fra la gente, la massa calda e vociante mi assedia, mi conquista e penetra in me. E la vita riprende a scorrere come il sangue nelle vene. E finalmente sono dentro il mondo, nel flusso inarrestabile della vita.
Mi pare che il fiume di gente scorra troppo veloce, la corrente serpeggia fra gli angoli dei palazzi, le rapide rumoreggiano tumultuose e io sono soltanto un pezzo di legno trasportato dalla corrente. Non posso che assecondarla.
Ma le stelle non corrono più così veloci sopra la mia testa, la corrente sta rallentando, o meglio, mi sono accorto di essere finito in un flusso secondario che si assottiglia sempre più fino a prosciugarsi.
Le ultime lingue d'acqua della fiumana mi depositano ai piedi di due signori ben vestiti che mi acciuffano e mi trascinano via con loro in un basso edificio dalla sagoma irregolare, privo d'insegne e di qualsiasi luce. Insieme imbocchiamo corridoi, scendiamo scale, entriamo in montacarichi cigolanti, e caliamo, sempre più in basso. Finchè udiamo un tonfo sordo. Abbiamo toccato il fondo.
La gabbia di ferro si apre all'improvviso con gran fracasso. Entriamo in un lungo corridoio, lo percorriamo tutto con passo deciso, io e i miei due accompagnatori. Ci fermiamo soltanto davanti a una porta. La riconosco. E' la mia.
E' la stanza 42.

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