sabato 2 aprile 2016

Dentro lei


 
Non si accorgeva neppure della mia presenza, ma io vegliavo discreto sul suo sonno, sulla sua vita, come un guardiano riservato e silenzioso, affinchè nulla d'imperfetto potesse soltanto sfiorarla.
Le ciglia d'oro pesavano sulle gote. E il pallore della fronte, il naso perfetto, la curva delle guance che rifletteva morbida la luce e le labbra tumide. Era il volto di una bambina addormentata, che forse sognava cavalli bianchi e palazzi di cristallo, draghi spaventosi e nobili cavalieri.
Il suo sonno era leggero e pesante al tempo stesso, proprio come quello dei bambini. Non osavo svegliarla. Le mie sensazioni non erano affatto diverse da quelle che si provano nella sala d'attesa di un dentista; era soltanto la mia indole noncurante a farmi sentire vigoroso e temerario, come uno di quei cavalieri dei sogni.
Temevo il suo risveglio.
La sua personalità era come scissa in due. C'era lei, ma c'era anche qualcun altro. L'intimità non era mai vera, non si poteva star certi di essere soli. C'era lei, e c'era anche l'altra. In lei vivevano due donne, l'una contro l'altra. Donne che si detestavano. Una era una poetessa e trovava sempre il punto di contatto fra i versi e la follia, ma l'altra era un sadico guerriero che non si placava prima di aver lasciato dietro sé dolore e devastazione.
Soltanto nel sonno trovava pace.
Non ho mai provato angoscia con una donna; con lei, anzi con loro, sì. Era come scendere in un precipizio nel buio più fitto: non sapevo mai cosa mi sarebbe spettato. Eppure, quella povera creatura mi ha amato; a modo suo, mi ha amato.
Mi guardava ma non mi vedeva, cercava se stessa. A volte si rivolgeva a me con un gesto affascinante e protettivo simile a un abbraccio, anche se non lo era. Ma subito dopo arrivava l'altra, col suo sguardo carico d'odio e un'ingiuria sfoderata come una spada pronta a colpire.
Forse, non è importante chi si ama a questo mondo, ma qualcuno bisogna pur amare.
Non desiderava cose impossibili, ma pretendeva una vita normale. Voleva soltanto svegliarsi la mattina con il gatto accoccolato sul letto, un vaso di fiori alla finestra e piangere da sola se ne aveva voglia.
Mi sarei accontentato di essere quel gatto, pur sapendo che mi sarei dovuto sobbarcare ore e ore di solitudine, o quel fiore nel vaso, essendo certo che avrei patito la sete, o quella finestra, che non si sarebbe mai spalancata sul mondo.
Un giorno, ho aperto la porta. Mi ero illuso di addomesticare la lupa famelica che dimorava in lei, ma ho rischiato di esserne sbranato. No, non avrebbe funzionato. Nel migliore dei casi, mi avrebbe divorato, nel peggiore, sarebbe rimasta chiusa in gabbia per sempre. In un modo o nell'altro, ci avremmo rimesso entrambi. Dovevo lasciarla andare, lo dovevo alla sua libertà morale, lo dovevo alla mia integrità fisica, alla mia sanità mentale. Così, ho tenuto la porta aperta, allo stesso modo in cui l'avevo fatta entrare, tanto tempo fa.
Io sono rimasto sulla soglia. Mi sono accontentato di vederla fuggire nella foresta nera e spaventosa, dal mio lembo privato e provvisorio di civiltà. Il suo ultimo ululato, acuminato e terrificante, era dedicato a me. L'acuto di un virtuoso. Mi è penetrato in fondo all'anima come la punta di un coltello. E da allora non ho smesso di sanguinare.
Il cielo è verde, oleoso. Un freddo sapore amaro nell'aria. E freddezza anche sui volti e nei gesti, un freddo che taglia il cuore. Nella vita c'è qualcosa d'indefinito, che aleggia triste nell'etere e nelle coscienze. Ma ora è qui, nel mio petto e fa parte di me, allo stesso modo in cui mi appartiene l'aria che respiro, prima che la restituisca, impura e contaminata, agli altri.
Passarono altri giorni, verdi e oleosi.
Dalla finestra aperta mi sembrava che il buio mi osservasse, mi scrutasse, mi spiasse. Poi penetrò all'improvviso nella stanza e in me. Era la foresta, nera e impenetrabile. Da qualche parte, lei mi chiamava.
E ricordai quei giorni sospesi fra lucidità e follia, giorni in cui eravamo più silenziosi dell'acqua, strisciavamo più bassi dell'erba. E gli odori di quel lontano ottobre, l'aria cristallina e pungente, i brividi di freddo sulla pelle. Tremavo pensando ai suoi occhi, del colore delle foglie morte e ardevo per quel suo corpo latteo, nudo e pieno alla scialba luce del mattino, quando riemergeva dai vividi sogni dell'alba.
Ero a un passo dal raggiungerla, scavalcare il davanzale e gettarmi a capofitto nelle tenebre, fra le sue zampe. E nelle sue fauci.
Dentro lei.
COPYRIGHY 2016 ANGELO MEDICI
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