sabato 23 aprile 2016

30. Il mariachi


Como el candor de una rosa. Y decirte nina hermosa...

Malaguena Salerosa sfumava lentamente come il sole all’orizzonte. Il signor Antonio andò alla finestra e si affacciò. Il traffico serale procedeva monotono. Sempre la stessa gente sui marciapiedi di quella città annoiata, inutile, fine a sé stessa. Era imperscrutabile, un borgo medievale cresciuto troppo e male, cinto da alte mura. E Antonio si chiedeva spesso se quelle mura fossero state erette per tenere fuori quelli che non dovevano entrare o per impedire a quelli che stavano dentro di uscire.

Non sapeva darsi una risposta, ma propendeva per la seconda ipotesi. E in fondo, era così che si sentiva. Imprigionato in una fortezza inespugnabile, rinchiuso nella torre più alta del castello. Aveva edificato la sua casa, aveva messo su famiglia e costruito la sua vita, ma ora si accorgeva che per tutto il tempo non aveva fatto altro che accumulare pietre, mattoni, marmi ed erigere mura, lapidi e inferriate per costruire una prigione.

La sua.

Mattone dopo mattone, pietra dopo pietra. Mura fatte di banconote, di scartoffie senza valore, di corpi nudi e cadaveri ambulanti, mura che si erano richiuse sopra la sua testa seppellendolo vivo.

La giacca e la cravatta erano la sua tenuta da galeotto. E la ventiquattrore la sua palla al piede. Anzi, al polso. Non avrebbe mai immaginato di finire così, impaludato in una vita piatta e stabile, troppo piatta e troppo stabile.

Invidiava le foglie che cadevano, perché nel momento stesso in cui precipitavano erano libere dall’albero e non ancora prigioniere della terra. Invidiava gli uccelli, liberi di saettare nel cielo, come frecce scagliate contro il sole nudo. Di quella libertà perduta sentiva un assoluto, disperato bisogno, come l'aria per il nuotatore in apnea da troppo tempo, come la luce per un cieco. Era questa la rinuncia più grande dell’alfiere della libertà senza confini, ridotto agli arresti domiciliari delle sue quattro mura per una condanna mai pronunciata, per una colpa mai commessa; in una città che odiava, in una casa che detestava, fra gente che lo disprezzava senza che ne sapesse il motivo. No; quella città e i suoi abitanti, lui proprio non li sopportava.

E non li capiva, né l'una né gli altri.

Si nutriva dell’odio scagliato da quegli sguardi obliqui, da quelle bocche digrignanti, da gesti rigidi e scostanti. La loro arroganza era senza limiti e l'indifferenza ne era la fedele compagna. La loro freddezza era una lama di ghiaccio che gli spaccava il cuore. Non era quello che aveva desiderato, non era questa la sua vita. Era vita B, vita C, forse D, sicuramente quella di qualcun altro. Non si riconosceva più, certo non in quell’essere amorfo e senza peso, alla mercè dei venti, ch’era diventato.

Ripensò a Desperado, il film che amava alla follia, alla scena in cui il mariachi si inginocchia a pregare prima dell’azione finale. Quante volte aveva imitato le sue pose sfrontate, il suo sguardo bello e altero; quante volte l'aveva invidiato perchè poteva stringere fra le braccia la bella Carolina.

Anche ad Antonio viene voglia di pregare, anche se non ha nessuna azione finale da compiere, anche se non ha alcun avversario spietato da sconfiggere e sa bene che azioni e gesti, sempre uguali, si ripeteranno all’infinito nella loro perfetta inutilità, nell’inutilità più grande che è la sua vita.

Si lega i capelli e s'inginocchia. Fa il segno della croce con la destra, ma la sinistra accarezza la canna della pistola.

Dio dammi la forza di tornare quello che ero e perdonami per quello che sono.



(To be continued)

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