giovedì 16 maggio 2013

Ritratto dell'artista da giovane

Ho preso in prestito a Joyce il titolo di questo post, per parlare dei miei esordi nella scrittura. In uno dei prossimi post, lo farò per la musica.
La primissima cosa che ho scritto, credo sia stata una poesia. Ero alle elementari e ciascuno di noi scolari doveva scriverne una sulla Festa d’Ognissanti. Alla maestra, dopo aver letto la mia, vennero i lucciconi. Mi ricordo ancora qualcosa di quello che avevo scritto. C’era senso di morte naturalmente e poi, solitudine, malinconia. Descrivevo una tomba abbandonata da tempo, senza cure, che non importava più a nessuno. Ricordo che la maestra mi guardò con gli occhi lucidi. Non so se si fosse commossa, leggendola. Preferisco pensare che i miei versi fossero talmente brutti da averla fatta piangere di disperazione.
Il secondo tentativo di scrittura fu dettato dal business. Ero alle medie e si lavorava in coppia. Io scrivevo pornazzi molto spinti ed espliciti, il mio socio provvedeva alle illustrazioni, molto rozze, ma efficaci. Realizzata l’”opera”, ne facevamo delle copie che mettevamo in vendita tra gli scolari. Battevo le storie su una vecchia macchina da scrivere, che imprimeva le lettere sulla carta, in particolare le a, le zeta e le effe, in maniera irregolare, un po’ più su, un po’ più giù, rispetto alla riga, così che a leggere veniva dopo un po’ la nausea. Per le copie, facevamo strati e strati di fogli bianchi e di fogli di carta copiativa (chi se la ricorda ancora?), fare fotocopie all’epoca era ancora una faccenda rara e soprattutto, costosa. Il mio amico ripassava le linee dei suoi disegni sulla carta copiativa e ne venivano fuori bozzetti grossolani, ma che rendevano molto bene l’idea. Ciononostante, le vendite andavano abbastanza bene tra gli alunni, presi dai primi tormenti erotici (evidentemente, il detto, tira più un pelo di f… che un carro di buoi, vale anche a quell’età), almeno fino a quando una di quelle storie -  me ne ricordo ancora il titolo: I dolori della signora Giuseppina, la trama ve la lascio immaginare – finì in mano a un professore. Come andò a finire, anche in questo caso, ve lo lascio immaginare.
Dopo allora, smisi per un bel pezzo di scrivere e soprattutto, di lavorare in coppia e da solo, iniziai a esplorare me stesso, le mie paure, i miei demoni interiori. Avevo centrato il nucleo dello scrivere, ovvero, il confronto, il colloquio a tu per tu con la mia anima, per spogliarla, metterla a nudo, strato dopo strato, finzione dopo finzione, facendo cadere una convenzione sociale dietro l’altra, per far emergere solo l’essenza più pura e vera. Ero alle superiori a quel tempo. E le mie paure, le mie angosce puntualmente emersero nel racconto che stavo scrivendo. Era una storia  claustrofobica e delirante. Si narrava di un uomo che aveva scoperto di avere un male incurabile e si era attaccato morbosamente alla vita, più di quando era in salute. Egli non voleva morire e per vendicarsi delle condizioni in cui era costretto dalla malattia, invidioso della vita e della salute degli altri, era diventato un assassino, una sorta di serial killer, che mutilava orribilmente le sue vittime. La storia, dattiloscritta, circolò con il solito metodo della carta copiativa, con l’aggiunta, stavolta, di alcune fotocopie e godette di una discreta popolarità. Forse troppa. Una copia fu intercettata dal prof. di italiano. Chissà perché, all’epoca i docenti tenevano gli occhi ben aperti, molto più di oggi, non sfuggiva loro quasi niente, meglio della Gestapo e più efficienti del KGB (per par condicio). Io ero quasi contento della scoperta. Mi aspettavo a quel punto lodi ed elogi ed ero certo che le mie doti letterarie fossero finalmente emerse e apprezzate. Invece, al professore il mio romanzo non solo non piacque, ma dovette essergli sembrato talmente orrido e zeppo di crudeltà e grondante sangue che fui spedito dritto dritto dallo psicologo, al quale dovei spiegare, tante volte, cosa vedessi nelle macchie sui fogli che mi andava mostrando. Io vedevo quello che c’era, cioè solo macchie, ma per trarmi d’impaccio chiesi aiuto alla mia fervida fantasia e inventai su due piedi animali, oggetti e persone. In questo modo me la cavai per fortuna solo con una memorabile lavata di capo e un brutto voto in italiano.
Poco più avanti, ormai maggiorenne, cominciai a fare sul serio, o almeno ci provai. Iniziai a scrivere di me, della vita, del mondo, ma, visti i precedenti, stavolta non feci neppure una copia dei miei lavori, anzi li nascosi scrupolosamente e non feci leggere più nulla a nessuno, tranne pochissime eccezioni in favore di persone fidate, fino a un paio d’anni fa, quando ho deciso di iniziare a pubblicare i miei scritti sul web.
Ho già detto da qualche altra parte in questo blog che non si può sopprimere, nascondere, o fare finta che non ci sia. La voglia di scrivere trova sempre il modo di tornare. E l’unico rimedio affinchè smetta di tormentarmi è assecondarla. A volte mi prudono le mani, quando vedo un foglio bianco. E fremo, sono preda dell’angoscia, fino a quando non ho scritto tutto quello che devo scrivere. E’ un vizio quasi quanto bere, fumare, andare a puttane. Ma nella mia vita non sono stato costante neppure in quelli. Non sono un abitudinario e prima o poi, a furia di praticarli, pure i vizi divengono monotoni e noiosi. Se non avessi un animo tormentato, con tutta probabilità non scriverei. Giocherei a calcetto. Scrivere è il prezzo da pagare per l’impossibilità di vivere una vita normale.
Fondamentalmente per me scrivere equivale a tre cose: comunicare, trasmettere emozioni, creare.
La scrittura è una nobilissima forma di comunicazione, forse la più profonda e diretta. Con la scrittura si può fare davvero di tutto: si può decidere di spiattellare tutto e subito in faccia al lettore, oppure lasciare intuire un po’ alla volta, si possono dire cose poco digeribili e si può trovare il coraggio di parlare di sé.
Scrivere a volte è devastante. Io provo tutto quello che scrivo. Il dolore, la rabbia, la malinconia, la tristezza, l’amore il desiderio, proprio come i miei personaggi e come loro, non mi risparmio. Nello scrivere ho un forte coinvolgimento emotivo, che dopo mi lascia svuotato, un po’ come dopo il sesso; per questo, quando qualcuno legge i miei scritti e dice: “questo racconto mi ha commosso”, oppure, “ho provato rabbia per quel tuo personaggio…” io so di aver raggiunto il mio scopo, perché i miei lettori hanno provato ciò che sentivo io mentre scrivevo quelle righe.
Infine, creare, secondo me, è mettere ordine nel caos. Io sono un disordinato di tutto rispetto, ma preferisco pensare che la mia sia solo confusione materiale, apparente. O con molta ironia e autoindulgenza, un modo diverso dal solito di mettere ordine. Ho letto teorie di psicologi che affermano che i disordinati tendono a tenere tutto fuori dai cassetti in mostra, in evidenza, sotto gli occhi, come se sentissero la necessità di controllare ogni cosa, in bella vista, per il timore di smarrirle. Non so se è il mio caso, ma in tutta sincerità, sono costretto ad ammettere che con tutto quel caos, in realtà, riesco a controllare ben poco.
Per fortuna, ho dalla mia l’esperienza di alcuni scrittori.
Mostratemi un uomo che abita solo e ha la cucina perpetuamente sporca e 5 volte su 9, vi mostrerò un uomo eccezionale.”
                                                                   (Charles Bukowski, 27 giugno 1967 alla 19° birra)
E ancora,
Mostratemi un uomo che abita solo e ha una cucina perpetuamente pulita, 8 volte su 9 vi mostrerò un uomo detestabile sul piano spirituale.
                                                   (Charles Bukowski, 27 giugno 1967 alla 20° birra)
E per finire,
Tristi anime umane, che mettono tutto in ordine”.
                                           (Alberto Caerio, alias Fernando Pessoa ne, Il custode di greggi)
Post scriptum e ciliegina sulla torta,
Il disordine, amico mio, è la genuina essenza della vita stessa.”
                                                                       (Louis - Ferdinand Celine, Morte a credito).

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