domenica 28 aprile 2013

Spari a Palazzo Chigi

Bruttissimo episodio quello di oggi. Spari, feriti, arresti. Scene da Italia d’altri tempi. In alcuni scatti l’attentatore sembra quasi ridere, forse è poco più di un ghigno di dolore, o forse quel sorriso contratto è del tutto volontario e in tal caso, somiglia molto al riso macabro delle iene. Dicono che avesse perso il lavoro e la famiglia. Per un uomo il fallimento è sempre doppio. Nel lavoro si misura la nostra forza, senza lavoro non siamo niente. Nella famiglia si misura il grado di realizzazione dei nostri sogni. Senza la famiglia, la casa, perdiamo gli orizzonti di riferimento. Quando tutto comincia a crollare, quando il mondo precipita, è facile perdere la testa. Io non voglio emettere condanne. Non si può giudicare se non si sta dentro la pelle dei nostri simili. Ma voglio farmi delle domande e tentare di rispondere.
Quanto si dev’essere disperati per fare una cosa del genere? Quanta lucida follia occorre per impugnare una pistola e sparare nel mucchio? Mi vengono in mente le scene di Un giorno di ordinaria follia, quando un grande Michael Douglas, mollato dalla moglie e anche dal suo capo, che l’ha appena licenziato, perde la testa e ne combina di tutti i colori, sputando uno a uno i rospi che gli hanno fatto ingoiare per tutta la vita. Mi tornano in mente frammenti di immagini, foto sgranate, breaking news, stragi della follia nelle scuole, sparatorie per un nonnulla nei campus e nei luoghi di lavoro. Ma queste cose non succedevano solo in America?
Ripenso anche al caso della giovane avvocatessa delle Marche sfigurata dal vetriolo a opera del suo ex e mi domando: queste cose non le fanno i pretendenti respinti, feriti nel loro falso orgoglio di maschi, in Afghanistan o in altri luoghi dove si governa con la sharia, la misera e triste legge islamica? E mi viene da pensare che, in un mondo globalizzato e globalizzante, siamo forse diventati tutti un po’ americani e un po’ afghani, nel senso deteriore del termine.
Un carabiniere a terra, con i capelli bianchi sporchi di sangue, che scorre a rivoli sui sampietrini. Un’immagine che mi ha fatto impressione. Ho pensato subito alla sua famiglia, ai suoi figli. Sono figlio di carabiniere anch’io e mi ricordo bene degli slogan degli anni settanta – ammazza un carabiniere (o un poliziotto, o un finanziare) al giorno! Non ci voglio tornare a quegli anni.
Se lo sparatore sia un prodotto della crisi, economica e sociale, dell’abbrutimento dei costumi, della deresponsabilizzazione dell’individuo, dell’oggettivazione delle colpe, io non lo so. Ma quello che spero è che non ci mettiamo tutti a riversare i nostri fallimenti, le nostre tragedie, la nostra disperazione, grandi o piccole che siano, sugli altri, a tentare di farla pagare a questa società sempre più brutta, anonima e massificante, deumanizzata e fagocitante.
Voglio rivolgere il mio pensiero a tutti coloro che hanno perso il lavoro e camminano a testa alta, stringendo i denti, con dignità e coraggio e combattono tutti i giorni la loro guerra per la sopravvivenza, con la semplicità dei gesti quotidiani, nel più completo anonimato, senza avvertire la necessità di gesti eclatanti e irrimediabili, disperati e inutili, come quello di oggi. E voglio pensare anche a quelli che hanno scelto di dirigere la violenza contro sé stessi, che hanno preferito togliersi la vita, sopraffatti dalle difficoltà, incapaci di vedere più alcuna via d’uscita, che non hanno fatto alcun male agli altri, ma solo a sé stessi.

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