martedì 25 novembre 2014

Costruire la città verticale


 

            Una città va edificata dalle fondamenta, prima lo scavo del terreno, poi la gettata di cemento, la costruzione dei piani intermedi e infine, la conquista del cielo con una scalata di mattoni, blocchetti e tondini di ferro. Nella mia città, invece, si costruiscono prima i tetti e i solai e solo dopo le fondamenta. Nella mia città è tutto sottosopra. le persone oneste stanno in galera, i farabutti e gli assassini girano liberi per strada. E se uno vuole essere libero e non diventare un delinquente, mi dispiace, ma ha sbagliato città, non ha altra scelta che andarsene.

La città verticale è diversa da tutte le altre. Innanzitutto, non esiste in alcun luogo al mondo, ma, al tempo stesso, tutte le città del mondo ne contengono almeno un pezzo che le somiglia in maniera sorprendente. Così, se per caso vi capiterà di aggirarvi per le strade della mia città, troverete dei luoghi che vi sono familiari. Ma, vi consiglio di stare con gli occhi aperti. E’ piena di insidie e pericoli e tentazioni. E si parla una lingua bizzarra, che tronca la coda alle parole per risparmiare; ed è una lingua che ha perso il tempo futuro. Forse perché chi la parla ha perso la speranza.

Così, non ho potuto usarlo neppure io nella narrazione. In compenso, mi sono potuto sbizzarrire con una gamma cromatica infinita: il bianco, il nero e le loro infinite gradazioni. E già, perché io immagino il passato come una foto in bianco e nero e anche le storie scritte al passato assumono questa bicromia illimitata. L’imperfetto è un tempo aperto, alcune cose sono appena accadute o possono ancora accadere e sono i passi degli attori sulla scena a stabilire la differenza fra l’azione in fieri, solo immaginata, e l’azione concreta; il presente, unica eccezione alla consecutio temporum declinata al passato, è schiacciato sul reale e non offre profondità o prospettiva, in compenso, rende le scene molto drammatiche. Il passato remoto è risultato appropriato per modellare la definitività degli eventi: quello che doveva accadere è accaduto, ciò che è stato è ormai incancellabile. A volte li ho mescolati nello stesso capitolo, per dare ritmo, movimento, prospettiva. Spero di non aver pasticciato troppo.

Anche con la caratterizzazione dei personaggi.

Le caratteristiche del personaggio devono emergere dalla storia, da quello che dice, da quello che pensa, da quello che fa, da come interagisce con gli altri attori del copione e non da un approccio descrittivo, come invece eccezionalmente ho fatto ne La città verticale, dedicando quasi un intero capitolo a delineare la figura del protagonista. Ma ciò rispondeva a un’esigenza ben precisa: far risaltare la mancanza di una ferma volontà nel personaggio del prete in crisi, che vacilla nella sua fede. Queste incertezze generano tensione nel raccontare e fanno sì che il tessuto narrativo, che rende monchi gli eventi di qualsiasi motivazione, assuma un sapore alquanto assurdo e grottesco, come io stesso anticipavo in Ubi pus, ibi evacua, prefazione al romanzo, nella quale avevo parlato di vicende che parevano tratte dal teatro dell’assurdo, del grottesco e del surreale, ma che dimostrano quanto, a volte, può essere assurda, grottesca e surreale la vita stessa.

            Ogni trama contiene in sé innumerevoli possibilità di soluzione e sceglierle vuol dire iniziare a scrivere. Non ci sono regole, anche se, spesso, si sceglie la soluzione meno ovvia per spiazzare il lettore, stimolare la sua curiosità, tenerlo legato al testo e dare una risposta alla sua domanda: “come va a finire?”. E io rispondo. Ma non subito. Intanto, bisogna scegliere il punto di vista narrativo. In fondo, è come avere una telecamera e bisogna decidere se puntarla sul protagonista, sul comprimario, sul paesaggio o sullo scrittore, se ha scelto l’io narrante, e anche se accostarsi più a un personaggio e allontanarsi da un altro. Se invece puntiamo la telecamera su noi stessi e ci mettiamo vicino al lettore, al suo livello, diciamo, ma un po’ più avanti, in quanto siamo a conoscenza di qualche elemento in più che fa evolvere e proseguire la narrazione, è come se gli dicessimo: “Dai seguimi, andiamo a vedere quello che succede”. Invece, il punto di vista della narrazione in terza persona scaraventa lo scrittore fuori dalla sua storia, egli la guarda dall’alto, come se fosse Dio, e come Lui, è onnisciente e onnipotente, non interferisce con il suo eroe e ne resta distante. Ma può capitare che, nonostante tutte le cautele, il personaggio sfugga dal controllo e lo scrittore è costretto a inseguirlo, a esortarlo, a supplicarlo a comportarsi in un certo modo desistendo da un altro, ma questi non lo ascolta e continua a fare quello che vuole. Allora, la sua disobbedienza costringe il suo creatore a interferire con lui, a dialogarci, a minacciarlo anche, ma questo fa di lui un narratore impotente, che non ha la forza di dirigere i suoi personaggi entro i confini della trama che ha ipotizzato. A me, per fortuna, capita raramente, riprendo subito le redini dei miei personaggi e il controllo sulla trama. Sono un po’ un tiranno, lo confesso, voglio che facciano quello che dico, altrimenti prendo la gomma e li cancello dalla storia. E infine, non mi piace dialogare con loro, preferisco tenermene discosto, perché credo che queste relazioni conferiscano un sapore ottocentesco, moralistico e didascalico alla narrazione. E poi, i personaggi di un romanzo devono restare chiusi in un libro e non entrare mai nella vita reale. Attenzione, quindi, a chiudere bene i vostri libri dopo averli letti.

            Ma torniamo alla costruzione del personaggio.
Per tutta la vicenda il protagonista principale si dibatte incerto fra l’azione e la desistenza, che equivale a una resa incondizionata alla legge del più forte, e solo il finale rivela che le incertezze vengono da lui superate e che il suo punto di svolta è ancora nella fede. Non più nella fede in Dio, divenuto un simulacro di divinità, assurdo, lontano e falso quanto un crocifisso di plastica made in China, ma nella fede verso il quartiere, la città, la sua gente. In fondo, cos’è la fede se non un atto d’amore? Un amore incondizionato che non ha bisogno di prove e che non ammette esitazioni. Ed è in nome dell’amore per quelle persone, che egli accetta di compiere il sacrificio sublime di distruggere la sua vita e tutto ciò che era stato fino a quel momento, gettando alle ortiche l’abito talare, per salvare il suo popolo e portare a compimento il compito di ogni pastore: condurre al sicuro il suo gregge.

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