sabato 8 novembre 2014

Avventure marinare



 
Sempre il mare, uomo libero, amerai.
(Charles Baudelaire)
 
 
 
Perché quest’improvvisa fascinazione per il mare? Non è come una scoperta, è piuttosto un ritorno, un riaffiorare di antichi, spenti ricordi. Forse sto diventando vecchio e sento il bisogno di tornare alle acque, là dove tutto ebbe inizio.

Non siamo gente di mare. Le nostre impronte sanno di terra e del fango che resta attaccato sotto le suole delle scarpe. Le nostre impronte sono larghe e pesanti e violentano la terra con rudi scarponi di contadini. I nostri passi non sono eleganti, i nostri piedi non sono abituati a star in equilibrio su assi scricchiolanti d’imbarcazioni e natanti.

Dove vivo non c’è mare, solo una pianura infinita e escrescenze geologiche che chiamano Colli Euganei. La pianura era una volta il fondo del mare e i Colli erano isole. A volte quando corro nella bassa mi viene da pensarci su, soprattutto se c’è nebbia, e m’immagino dentro uno scafandro a correre con grande fatica sui fondali marini. Oppure, sulla superficie, a navigare tra le isole dell’arcipelago.

Se i Colli Euganei fossero isole spuntate nel bel mezzo della notte, ne circumnavigherei le coste alla luce delle stelle. E questa notte saprebbe d’infinito.

Forse la pianura è una donna addormentata nell’acqua e i Colli sono i suoi seni che spuntano dal verde mare dei campi.

E’ sufficiente nascere in una città di mare per essere considerato un uomo di mare?

Io non credo.

Sento che è una pazzia, eppure sono le quattro del mattino, fuori è buio pesto, ma sono già sveglio a chiedermi cosa ci faccio davanti a una tazza di caffè bollente e un bicchiere di succo d’arancia gelato.

La risposta giunge con lo strana mistura di caffè bollente e succo d’arancia gelato, che ingurgito insieme per fare presto. Non ce la faccio più a stare seduto dentro questa cucina buia, scalpito, fremo.

E’ ora d’andare.

Apro la porta di casa. Fuori l’oscurità si stende placida e uniforme sulle cose come un manto nero. Sembra ieri, ma è già oggi.

I fari dell’auto tagliano il buio a grandi fette d’ombra. La strada che conduce al mare è rettilinea e vuota e a un tratto mi sento solo. Ma non è una sensazione spiacevole. Una vettura incrocia il mio passaggio. Un contadino mattiniero, ragazzi che tornano dalla discoteca, o forse solo qualcuno che non riesce a dormire e cerca una giustificazione per il sonno che non viene a ingannarlo con la nebbia oscura dei sogni.

Senza preavviso, da un’oscurità che non sa di notte, mi ritrovo sul lungomare illuminato. Coni di luce inondano di gialle pozze le auto parcheggiate. Osservo ogni anfratto, ogni cassonetto della spazzatura, ogni gatto randagio e l’ombra degli oleandri sull’asfalto è scura e rassicurante.   Parcheggio e apro il finestrino. L’aria umida e pesante prende il posto dell’aria secca dell’abitacolo e mi rinfresca il volto. Il mare è nero e rumoreggia poco oltre la striscia di sabbia. Mi vengono i brividi.

La spiaggia è buia e deserta, ma manca circa mezz’ora al sorgere del sole, che illuminerà la mia prima rotta solitaria. Il tempo delle effemeridi, così mi hanno insegnato al corso, è l’ultimo scampolo di tenebre prima del giorno.

Vado avanti e dietro più volte, dall’auto alla spiaggia, all’andata sovraccarico come un mulo delle più stravaganti carabattole marinare, torno alla spiaggia carico solo dei miei sogni. Finalmente, il bagagliaio è stato svuotato. Davanti a me e al mare c’è un mucchio di materiale che mi arriva quasi al petto. La barca sul fondo, il motore, taniche di benzina e latte d’olio, corde, ehm... cime per ormeggio, cime d’ancora e cime di riserva e poi, drizze e scotte e sartie. Un giubbotto salvagente, un giubbotto salvagente di riserva e un altro giubbotto salvagente, riserva della riserva. E poi, razzi di segnalazione, trombe di avviso e fumogeni, manco fossi allo stadio. Mi fermo a guardare il mucchio scuro e silenzioso. Sembra quel che resta di un naufragio.

Il mio.

Il mare mi lambisce i piedi e pare voglia prendersi gioco di me. Forza e coraggio, c’è ancora tanto lavoro da fare. Mi rimbocco le maniche e mi metto all’opera.  

Sono stanco e sudato, ma la barca è pronta, proprio mentre sorge il sole. Mi attacco alla cima di prora e la traino fino al mare. L’acqua fredda e scura mi bagna i piedi e le caviglie. E’ gelida. Avanzo ancora, fino a quando l’acqua mi arriva alla cintola e la mia imbarcazione comincia a galleggiare. E’ un momento emozionante, è l’inizio del viaggio. Monto a bordo, insieme capitano, mozzo e passeggero e inizio a remare per prendere il largo. Mi sento un deficiente a remare come un forsennato, quando ho un motore che mi ci porterebbe in pochi minuti. In acqua non c’è nessuno, chi è che controlla se sono già a trecento metri regolamentari dalla spiaggia o non ancora? Sono stanco, remare è un affare per veri marinai. Mi decido e agguanto la corda d’accensione. E se il motore non partisse? Proprio ora che ci siamo! Dovrei rifarmi il percorso inverso a remi. Sono sudato come dentro una sauna e sono già spossato.

Il motore parte al primo colpo, che bello sentirlo rombare ritmico e regolare. M’ero mentalmente preparato una sfilza di bestemmie e imprecazioni contro il dio del mare, ma le accantono, non sono state necessarie. Apro il gas e incominciamo davvero a navigare.

Da dietro la diga foranea sbuca l’imbarcazione della Guardia Costiera. Mi viene un tuffo al cuore. Mi hanno visto accendere il motore entro la fascia di sicurezza e ora sono guai. Ma dal battello mi guardano appena, un breve cenno di saluto dell’uomo al timone e vanno via placidi, senza fretta.

Io punto decisamente verso il largo. Le onde hanno un periodo più lungo, qualche spruzzo mi raggiunge mentre sono impegnato con le manovre. Stimo di essere a un miglio circa dalla terra e metto la barca in rotta. Volgo la barra a levante e la poppa segue il moto rotatorio. Subito dopo lo fa anche la prua, compiendo un ampio arco di cerchio verso ponente. Ecco, ancora qualche piccola correzione di rotta e navighiamo paralleli alla costa.

E’ facile tenere la rotta. Se ho la terra a destra e il mare a sinistra, sto andando a sud. Finchè mantengo il contatto visivo con il litorale è impossibile sbagliarsi, mi sento sicuro per la presenza di quella sottile linea verde, un lembo di costa bassa che si distende su tutto l’orizzonte occidentale, mi sembra quasi di poterla toccare. In caso di problemi, un breve colpetto al timone e in poco tempo toccherei terra.

Il mare è calmo, l’atmosfera tranquilla e mi sto rilassando. Ma è meglio non perdere la concentrazione e mantenere la barra dritta, come si dice. E anche gli occhi aperti, e… il culo stretto, perché non si sa mai. Il fato potrebbe riservarmi qualche sorpresa. Magari, una bella sirena viene a stendersi mezza nuda sulla prua del mio naviglio, ammaliandomi con il suo canto.

O un sireno.

Ora capisco il consiglio di tenere il culo stretto. Bè per come ho la strizza oggi, tutto solo in mezzo al mare, dal mio sfintere non passerebbe neppure la cruna di un ago, mmm… Non erano i cammelli a non passare per la cruna degli aghi? Oggi, tra onde, punti cardinali, aghi, cammelli e sfinteri, non c’è che l’imbarazzo della scelta per creare confusione.

E, se invece, incontrassi una selkie? Mi rendo conto che a queste latitudini sarebbe alquanto improbabile imbattersi nella protagonista di numerose leggende delle Isole Orcadi, ma per una bella come la mitica Ondine, farei volentieri un sogno a occhi aperti, un volo pindarico tra i flutti marini abbracciato a lei.

Secondo le leggende nordiche, la selkie è una foca che si è trasformata in donna per far innamorare i marinai col suo canto dolce e ammaliatore, ma dopo aver giaciuto col prescelto per una notte, riassume il suo aspetto di sirenide e scivola via tra le acque bagnate di luna piena, lasciandosi dietro solo un letto bagnato di lacrime. Quelle del derelitto marinaio dal cuore straziato, o le sue. Ma pare che ci sia un modo per trattenerle a terra. Se si sotterra il manto di foca del quale si spogliano per assumere sembianze umane, non torneranno mai più al mare.

Sono solo in mezzo ai flutti e mi rendo conto che ho davvero tanto da imparare. Ma non posso affidarmi al mare. Come dice Erri De Luca, "Sul mare non è come a scuola, non ci stanno professori. Ci sta il mare e ci stai tu. E il mare non insegna, il mare fa, con la maniera sua." Come un novizio, spero d’imparare presto, prima di andare a fare compagnia ai pesci.

Sospeso sull’abisso, a volteggiare sulle acque trasparenti con il mio fragile guscio di noce, m’afferra il cuore uno sgomento e sprofondo in un vago senso di vertigine al pensiero che se l’acqua si prosciugasse di colpo, precipiterei sul fondo, trenta metri più in basso. E’ solo acqua e sale, ma è profondo, è molto profondo. Ma non accade, l’acqua mi sostiene e non è un miracolo il principio di Archimede.

Nella solitudine delle acque nascono le leggende più spaventose, però i mostri marini non sorgono dal fondo dell’oceano, ma dalle profondità della nostra anima.

A proposito di abissi e mostri marini, mi vengono in mente quei versi dell’Eneide sui due serpenti. Come fanno?

Ah ecco, ora ricordo.

Sul profondo e calmo mare,

            incombono due serpenti con immense volute.

E poi, come continua? Ah si!

I petti irti tra i flutti e le creste sanguigne sovrastano le onde.

Mentre il resto del loro corpo si snoda a fior d'acqua,

uno di essi ora mi avvinghia la vita due volte

e mi opprime col doppio nodo del suo amore

e io mi sforzo di svellere il suo nodo.

Virgilio, sei un grande. Devo ricomprarmi l’Eneide. Credo che nelle case italiane ci siano più Bibbie e Vangeli che Eneidi e Odissee e i risultati si vedono, la poesia, il classicismo, la mitologia finiscono nel pattume e nessuno più le cerca. E poi, i pagani siamo noi!

Scruto l’orizzonte, ma di serpenti marini e creste sanguigne neanche l’ombra. Mi dispiace Virgilio, ma credo che oggi non sia la tua giornata. In compenso, al posto dei serpenti si avvicinano due pescherecci mantenendo rotte parallele. A separare i natanti, ci sarà una via d’acqua, si e no, di cinquecento metri, ops… in mare si usano le miglia e non i metri, quindi, mi correggo e stimo un quarto di miglio. Solo che ora mi sono agitato e non ricordo più la precedenza, ops… ancora un errore! In strada c’è la precedenza, in mare le regole per prevenire gli abbordi.

Per fortuna, mi viene in mente che in una situazione del genere, ognuno di noi deve mantenere la rotta. Le rotte sono parallele e non s’intersecano, ergo, non c’è rischio di collisione. La mia barca scivola silenziosamente tra i due pescherecci, mentre incrocio le dita sperando di averci preso. Prima da una barca, poi dall’altra a dritta si levano in alto bianche palme in segno di saluto. Saluto a mia volta, felice. Ci ho imbroccato e ne vado fiero.

I pescherecci spariscono alle mie spalle, anzi, dovevo dire a poppa e mi ritrovo, ancora solo, sul profondo e calmo mare. Mi è venuta voglia di galoppare un po’ sulle onde. Apro con decisione la manetta. Ora andiamo più veloci.

La prua fende il mare, che s’increspa appena. Controllo la scia che mi lascio dietro, una gigantesca V bianca e piatta che incido sulla pelle delle onde. Dalla forza del vento che mi sbatte sulla faccia, giudico che venti nodi ci sono tutti. Con un discreto sobbalzo – sembra un calcio sferrato sotto lo scafo – e una decisa deriva a est, mi accorgo della foce dell’Adige. Il flusso d’acqua dolce è largo e si avverte in anticipo rispetto alla parentesi d’acqua del fiume che interrompe il profilo della costa. Si scorge nitida la terra da qui, a due miglia al largo.

Riprendo subito il controllo e correggo la rotta. E’ come se un fiume sotterraneo scorresse sotto il mare, la corrente è forte e mi sospinge al largo. Il mare è subdolo e ingannatore e vuole portarmi dove dice lui. Ecco perché si consiglia: mantenere la barra dritta. Ma io sono nuovo e lui se n’è accorto, sa che può ingannarmi facilmente. Vedrai, mi ha avvertito un amico, vedrai, oltre i venti metri di profondità il mare cambia, te ne accorgerai. Me ne sono accorto, infatti. Le onde rinforzano, non è tempesta, ma gli spruzzi mi bagnano il volto e i capelli. Eppure, di tutto questo sulla terra non v’è traccia. E’ tutto calmo e tranquillo e la riva sembra addormentata.
Che fare? Invertire la rotta e rifugiarmi nelle acque sicure del porto? Da qui saranno sì e no un’ora scarsa di navigazione. Se invece continuo, tra un po’ compariranno le secche davanti a Porto Caleri e l’acqua bassa frenerà l’impeto del mare, regalandomi una navigazione più tranquilla. Decido di proseguire, non voglio arrendermi troppo presto in questa prima uscita in solitario. Se dovesse mettersi al brutto potrò sempre infilarmi nella laguna e attendere che passi per tornare indietro, o chiamare qualcuno che mi venga a prendere. Ma, se il motore si piantasse? Di sicuro con questo tempo non ce la farei a tornare a terra a remi, sono due miglia, quasi quattro chilometri di onde e correnti, resterei per sempre al largo, mi ritroveranno tra una settimana in Croazia. Ma il motore ronza sicuro e affidabile, sembra chiedermi: perché dovrei piantarmi? col suo gambo lungo e affilato, alla cui estremità l’elica scintillante batte l’acqua sorniona e regolare, come uno che sa il fatto suo. E’ deciso, si va avanti. Manca poco ormai, tra poco vedrò le dune bianche e deserte e sarà il momento d’invertire la rotta e tornare a casa.
 
 

Un’onda mi esplode in faccia all’improvviso. Il mare è forte e me lo ricorda ogni momento. E ogni momento mi può sbattere a calci fuori dalle sue acque, come un impudente moscerino che abbia osato violare il suo regno, e fare di me un naufrago. Lecco dalle labbra il suo dono salino, sapido e pungente che m’invade la bocca, è un sapore primordiale.

Ci sono tre specie di uomini: quelli vivi, quelli morti e quelli che vanno per mare”. Questa frase non so chi l’abbia scritta, ma mi piace, la sento mia. Ecco, a terra non mi sentivo del tutto vivo, quasi un ondivago zombie a cavalcioni tra la vita e la morte, ma oggi che vado per mare non ho la mente ottenebrata dall’odio, dalle delusioni, dall’amarezza e dai sensi di colpa, oggi in mezzo al mare sono ineluttabilmente vivo.

L’acqua gorgoglia dietro la poppa, il vento sta cambiando. E’ quasi tempesta, ma mi sento vivo. Il vento rinforza, da che parte andare? Mi pare che spiri dal mare, se mi metto poppa al vento mi condurrà a terra senza che me ne accorga, se invece continuo a tenere una rotta parallela alla costa sarà difficile navigare, il mio fragile vascello scarroccerà per la forza del mare e scadrà al vento. Sarà arduo mantenere la rotta. Già, ma che direzione conviene seguire? Cerco di richiamare alla mente la rosa dei venti, però non mi è di aiuto. Ma in quel momento, sopravviene un’altra riflessione, quella del famoso marinaio di Seneca, per il quale nessun vento era favorevole, perché non sapeva dove andare. Ma io non farò come il marinaio di Seneca, ora so dove andare. Verso il porto. Il mare ha rinforzato troppo, meglio rientrare.

La barca ballonzola sulle onde, vi si arrampica e ne ridiscende agile, ma già un’altra è da presso, pronta a sferrare il suo liquido attacco. Il vento scompone le onde e bianca spuma risale il profilo dei flutti e si scontra in alto col livido del cielo opaco, che si sta chiudendo sopra la mia testa. Il mare è, a tratti, grigio e verde scuro e in esso si specchia la pesantezza del cielo.

E come quando partivamo per la Cina

Gli occhi fissi al largo e i capelli al vento

C’imbarcheremo sul Mare delle Tenebre

Col cuore allegro di un passeggero giovane.

Credo che se Baudelaire non avesse fatto il poeta, sarebbe stato un marinaio. Di sicuro, però, se ne intendeva di tenebre e tempeste.

Il cielo s’apre e si chiude, come se Dio stesse strizzando una spugna. Le nuvole cavalcano veloci sulle onde e superano con facilità la mia barchetta. Quando il cielo si apre, il sole scaglia dardi accecanti sulla superficie delle acque. Quando si richiude, l’ombra è netta e definitiva come il coperchio di una tomba.

Non la mia.

Non fioriscono rose sulla tomba del marinaio, l’unico ornamento sono il battito d’ali di bianchi gabbiani e la lacrima che una fanciulla ha pianto.

Davanti a me la lunga linea grigia del porto. E la città distesa al sole. Emerge dalle acque insieme alla fine di questo primo viaggio. Non sono le bianche mura di Odessa, ma va più che bene. Penso di essermi meritato il panino, oggi. Lo ripesco dal gavone di prua, dove l’avevo riposto tra la cima dell’ancora e i razzi di segnalazione e lo addento. Sa di sale. Nel fondo del gavone ci sono due dita d’acqua. Non andrò certo a fondo, questa barca è garantita inaffondabile, ma vedere l’acqua sporca, quasi nera, che ha invaso il fondo della mia piccola nave, che sono ancora tra i flutti, mi dà i brividi.

Il sole è alto e nel riflesso del mare si scompone in migliaia di frammenti, come fossero schegge di vetro. Si sbarca, il viaggio è finito. Ormeggio la mia bagnarola e metto piede a terra. Provo una strana sensazione, quasi quasi, mi sentivo meglio prima. Al largo, tra le onde, mi ero abituato al loro dondolio e la terraferma mi sembra di colpo troppo ferma e stabile. Mi volto a guardare la barca e mi si chiude lo stomaco, se penso che l’ho condotta in mezzo al mare, io, da solo. E’ così piccola e fragile, che anche un’onda minuscola la può rovesciare, ma è la mia e mi rattrista abbandonarla nelle acque livide del porto. In quel momento mi sgorgano dal cuore altri versi.

Tutto quello che chiedo è una piccola nave

e una stella per fare la rotta.

Neppure in questo caso mi ricordo di chi sono, però mi accorgo all’improvviso che la mia piccola nave non ha ancora un nome. Mi piacerebbe darle un nome di donna, un nome grazioso e ricercato, così che possa ergersi impettita come una polena sulle onde e fendere col suo petto i flutti, una dama che danza sulle acque.

Credo che Ondine sarebbe un nome appropriato.

 

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