sabato 4 gennaio 2014

Valzer con Bashir


 

Autocitarsi è un’operazione piuttosto inelegante, che di regola andrebbe evitata, dice Carofiglio in La manomissione delle parole. Ho deciso di fare uno strappo alla regola – non il primo, purtroppo, ma devo farmi un po’ di pubblicità -, perché di recente una lettrice ha paragonato l’impatto delle prime pagine di Cenere (L’impero del vento, SBC Edizioni 2013) a Valzer con Bashir, un film animato israeliano, dal quale, di recente, è stato tratto anche un graphic novel, che è un modo nuovo di dire una cosa vecchia, cioè, il classico volume a fumetti. Sono lusingato dal paragone che, tuttavia, ritengo a ragione di non meritare. Credo che lei si riferisse alla scena del soldato israeliano che danza con i proiettili sul lungomare di Beirut e che dà il titolo al film, perché la danza avviene proprio sotto la gigantografia di Bashir Gemayel, appena eletto Presidente del Libano a trentacinque anni e già ucciso, nella sequenza filmica che ci scaraventa nelle guerre mediorientali degli anni ottanta.

La scena è molto bella, è pura poesia di morte. Come poesia di morte sono le sequenze finali. I fumettisti (chiamarli così è riduttivo) però si sono dovuti arrendere, l’orrore è troppo grande per essere disegnato, così, hanno preferito sostituire i fumetti con le foto e man mano che i disegni sfumano, il loro posto è preso dalla fotografia, cruda, desaturata, banale, quanto banale può essere a volte il male, mai la morte, perché la morte di madri, bambini inermi, vecchi senza speranza, non è mai banale. La fine del film (e anche del libro) è un crudo reportage fotografico. Non si sa chi sia stato il primo a documentare l’orrore, ma le immagini fecero il giro del mondo. Occhi spalancati sul nulla, bocche aperte come per stupore, cadaveri gonfi per il naturale decorso tanatologico. Non avevano alcuna colpa, se non quella di essere palestinesi e di trovarsi nel posto sbagliato, in campi profughi senza vie d’uscita, circondati da ogni lato dai carri armati di Tsahal, l’esercito israeliano. Si tratta di Sabra e Chatila, un massacro, forse il massacro dei massacri (signori, stiamo parlando di tremila e cinquecento morti), quello che ci ha gettato a forza dentro la storia moderna e che gli israeliani regalarono alle Falangi Libanesi, le milizie cristiane, per vendicare il loro leader, Bashir Gemayel. Il massacro nel quale ognuno di noi perse l’innocenza. Eravamo tutti colpevoli.

Quella storia mi sconvolse da piccolo e ritrovarla in questo film mi ha scosso di nuovo.

Il film è molto bello, è devastante sul piano emotivo e ho trovato singolare il fatto che la storia sia stata raccontata da un israeliano, Ari Folman, che a quel tempo era soldato e aveva vissuto molto da vicino quegli eventi. Eventi che per moltissimi anni la sua memoria si era rifiutata di rievocare, sopraffatta dal dolore e così, per recuperare i ricordi, è dovuto andare in cerca dei commilitoni che, a loro volta però, li avevano smarriti, in tutto o in parte. Ma, in qualche modo la memoria, attraverso la coltre del dolore e dell’orrore è tornata a galla e si è tradotta in narrazione.

Tra il 16 e il 18 settembre del 1982, la milizia cristiana libanese entrò a Sabra e Chatila, due campi di rifugiati palestinesi alla periferia di Beirut. Il 14 settembre, il trentacinquenne Bashir Gemayel, appena eletto Presidente del Libano, era stato ucciso insieme ad altre ventisei persone da una bomba esplosa nel quartier generale delle Falangi Libanesi. La ritorsione non si fece attendere e, due giorni dopo, Sabra e Chatila assistettero all’ingresso della milizia libanese.” (La rimozione del trauma, prefazione a Valzer con Bashir di Paolo Interdonato).

Il resto è storia.

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