lunedì 30 dicembre 2013

Corpo a corpo


Tutto ebbe inizio con sguardi bassi, mani protese e subito rifiutate, con sorrisi non ricambiati, con parole che nessuno osava ripetere, che risvegliavano rancori sopiti, soffocati sotto coltri di conformismo e quieto vivere. Ogni cosa ebbe inizio e proseguì in quello stato di astio latente. Nessuno sapeva dove sarebbero finiti, nessuno poteva conoscere l’epilogo e neppure sospettarlo. S’illudevano che l’amore avrebbe risolto ogni cosa, che avrebbe illuminato a giorno anche la notte più oscura, ora che le loro notti si facevano così frequenti, ma temevano anche che l’orgoglio potesse schiacciare sotto i suoi pesanti piedi quell’amore giovane e pulito, quell’amore appena nato e già in pericolo, che una mano nera e artigliata agitava a suo piacimento nell’abisso della tristezza e del dolore.

Allora l’aveva cercata.

A dire il vero, era tutta la vita che la cercava. Nella sua casa, tra le sue braccia, nella sua solitudine l’aveva cercata, nei giorni di luce, nei giorni d’ombra, nei giorni di vento. E continuava a cercarla. Spasmodicamente. Voleva tutto di lei. I sorrisi, i baci incerti frutto della sua eterna indecisione, i sogni e gli incubi, i desideri svaniti nel nulla, le parole mai dette, simili a gocce sospese dalle labbra e sul punto di cadere, ma mai pronunciate.

E le lacrime.

Raccoglieva appunto le sue lacrime una ad una, come gioielli da incastonare in una corona di spine, da porle sul capo, quando, vestita da sposa, l’avrebbe condotta all’altare il giorno delle nozze. Erano affamati di luce e di suono, eppure assenti, come bocche che si spalancano senza parlare, assenti, come occhi che si aprono senza guardare. Dalle mani, dagli occhi e dalle bocche l’amore risplendeva per un breve istante, ma, riflettendosi negli specchi paralleli delle loro anime, li confondeva. Allora lui la rivedeva, stranita e confusa, strana come strani sanno essere solo i sogni e tentava di offrirle in dono le parole che non aveva mai voluto ascoltare, le porgeva lacrime che non aveva pianto, le regalava le parole che non le aveva mai detto.

Aveva provato numerose volte a dichiararle le ragioni per le quali le imputava il loro fallimento, la distruzione dei loro sogni. Aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato, ma neppure una volta era riuscito a dirle di quei maledetti motivi. Gli era risultato impossibile. Allora aveva pensato, riflettuto, elucubrato, s’era scervellato e aveva provato a scriverle il perché di tale impossibilità, ma neppure in quel caso c’era riuscito. Poi, un giorno, come per un brusco risveglio, aveva finalmente capito dove stava lo sbaglio, dove si nascondeva l’errore, in quale luogo, frazione o parte oscura dei suoi pensieri si annidasse l’equivoco. Non erano addebitabili a lei tali supposti motivi, erano imputabili solo a se stesso.

Non la sapeva amare.

Avuta la rivelazione, aveva provato a spiegarle in mille modi gli errori in cui era incorso, gli equivoci che avevano ingannato la sua percezione. Ma lei era stata irremovibile. Aveva inteso il suo non sapere amare, come non amare, aveva interpretato la sua confessione come la fine dell’amore, la resa senza condizioni, la sepoltura prematura di quel sentimento ancora fresco e palpitante, la loro pietra tombale. Profondamente ferita dall’equivoco, aveva reagito ferendo a sua volta. Aveva preteso di poter smettere di amarlo, semplicemente imponendoselo, s’era convinta di poter fermare i loro cuori, semplicemente impedendo loro di battere, affogando le loro stesse vite in un secchio pieno di veleno e di rancore.

E ogni volta che s’incontravano era un continuo braccio di ferro, una corsa a primeggiare sull’altro nei sentimenti, nelle bontà, nelle emozioni, perfino nella rabbia, nell’angoscia e nelle perfidie reciproche. Tutte le volte che s’incontravano, veniva messa in scena una disfida infinita, assurda e inutile, quanto la sua crescente intensità. Erano così intenti a colpirsi, a ferirsi e a farsi male il più possibile, che non si avvedevano di null’altro.

Era una battaglia senza quartiere di una guerra combattuta solo per abitudine, una lotta corpo a corpo, all’ultimo sangue, un abbraccio mortale non ispirato tuttavia dal desiderio, che non lasciava morti a terra, solo feriti condannati a sopravvivere e soprattutto nessun vincitore, ma solo eterni sconfitti, perché nessuno poteva vincere a quel gioco.

A quel gioco si poteva soltanto perdere.

Si rendevano conto che non esisteva più alcuna via d’uscita, che non era più possibile alcuna salvezza. Semplicemente, il tempo a loro disposizione era terminato, la partita era stata giocata e il suo esito, per quanto scontato, era ormai deciso ed era proprio davanti ai loro occhi, a certificare il loro fallimento. Entrambi sapevano bene che non ci sarebbe potuto essere un intervallo per riprendere fiato, che nessuno avrebbe chiamato il time out per riflettere sul da farsi, che non ci sarebbe stato un terzo tempo per rimettere di nuovo tutto in discussione. Sapevano bene che non sarebbero state concesse proroghe o dilazioni.

Lo sapevano fin troppo bene.

Così, quel corpo che aveva amato senza compromessi e che aveva dato carne e sangue alla loro progenie, profilo di quell’anima pura, tanto bella e così stranamente simile alla sua - una volta vibravano all’unisono, come risonanze armoniche sulle corde di una chitarra – non era più per lui.  Quel corpo così amato e desiderato, conteso e conquistato palmo a palmo con una lotta feroce, quel corpo conosciuto a fondo come un continente esplorato centimetro per centimetro - colline e dolci pianure, coste e insenature e in fondo, il bosco fresco e oscuro a celare la porta socchiusa -, quel corpo non aveva più significato, non aveva più valore.

Quel corpo con il tempo era tornato ad essere del tutto sconosciuto, come se rovi, edere rampicanti e piante parassite si fossero riappropriate degli spazi loro sottratti e li celassero di nuovo alla vista, era tornato ad essere del tutto ignoto, quanto può esserlo una terra appena emersa dalle acque, i cui contorni siano stati solo abbozzati da geografi inesperti su una mappa polverosa e dimenticata dal tempo. Quel corpo, come un’isola avvolta nella nebbia, cinta da mari bui e spaventosi, era ormai lontano e irraggiungibile.

Persino nei mesi che seguirono la separazione fisica e l’imposizione delle distanze, nella condanna alla castità forzata il suo corpo chiamava ancora quello di lei, come il moncherino cerca l’arto amputato, che, per un riflesso condizionato, crede di muovere ancora. Il suo corpo desiderava quel corpo, anelava unirsi ad esso, non poteva farne a meno. Pativa la perdita come un’ingiusta privazione, il distacco, come una crudele, ma necessaria amputazione Con una sofferenza lenta e atroce, peggiore della fame e della sete, il suo corpo pativa l’abbandono.   

L’aveva amata tanto, senza interruzioni, senza compromessi, tanto da stare male, tanto da impazzire, tanto da non credere di poter amare in quel modo disperato e ineluttabile, di quell’amore devastante, sadico e totalitario, con la stessa costanza della fiammella di una candela che illumina per sempre la notte, senza mai consumarsi.

Lei lo lasciava senza fiato per quante volte la guardasse. Era bella.

Lei lo lasciava senza fiato per quante volte l’ascoltasse. Era crudele.

Ma non era più per lui, non gli apparteneva più. Forse, non gli era mai appartenuta.

E tuttavia, la sola idea che potesse amare qualcun altro, che dovesse spartirla con altri uomini, lo faceva letteralmente uscire di senno. Questo sospetto aumentava ogni giorno e come un tarlo, gli rodeva il cervello, lo imprigionava in una follia accecante, lo immobilizzava in una camicia di forza, densa di sudori malati. Era ormai divenuta un’ossessione per lui. Sentiva impellente, come un bisogno fisico, la necessità di liberarsi, sapeva di dovere spezzare quei legami morbosi che ancora l’avviluppavano a lei.

E all’improvviso, lei se n’era andata.

Se n’era andata così, su due piedi, senza una parola, senza un addio, senza una lacrima. Nemmeno un lamento, quando le aveva affondato la lama nel petto, senza quasi voltarsi indietro a guardarla per l’ultima volta, mentre andava via con il volto illuminato dall’espressione beffarda delle persone, che vogliono restare da sole a godersi finalmente la vittoria.

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