domenica 31 maggio 2015

Preludio al sabato



Cielo e terra cospirano affinchè ogni buon inizio vada a finir male. Chissà perché, mentre guidavo, mi venne in mente quella frase di Isaac Singer (1). Non ero sicuro della strada, infatti ci perdemmo più volte; non ero sicuro neppure sul buon esito della serata. E l’ultima mia insicurezza era sul fatto che non smarrivo la strada senza un buon motivo.

Ma ogni volta che perdevamo la strada, la ritrovavamo inevitabilmente e così, presto giungemmo al luogo del convegno.

Era venerdì sera, dovevo accompagnare i miei figli a una festa di classe e restarci fino al termine. Avrei preferito essere altrove.

Entrammo. Subito ci accolse la rappresentante di classe. Mi strinse la mano e mi stampò due baci sulle guance. Era sudata e sentii la pressione dei suoi grossi seni sul mio braccio. Sparò parole a raffica che non capivo nel frastuono della musica. Mi avvicinai. La sua bocca sapeva di cognac e denti marci. Come inizio non c’è che dire, pensai. In breve mi spiegò le regole del luogo, l’organizzazione della serata, il riparto delle spese. Se non l’avessi interrotta mi avrebbe reso edotto anche sulle norme di sicurezza e su quali comportamenti adottare se si fosse verificato un cataclisma.

I miei figli mi abbandonarono presto. Si fiondarono con i loro compagni verso i giochi e le attrazioni. Avevo già perso la loro compagnia e mi ritrovai solo nell’immenso salone, fra gente che non avevo mai visto. L’angoscia risalì, come per osmosi, le fibre muscolari e s’insediò, imperatrice del mondo, nel centro della mia testa.

Vidi un discreto affollamento al tavolo degli aperitivi e mi ci diressi, facendomi strada nella muraglia di spalle e schiene. Dopo molto penare, riuscii ad allungare un braccio per ghermire una bibita. Feci appena in tempo a prendere il mio bicchiere che levarono in alto i calici. Brindai alla salute di non so chi, bevendo non so cosa, insieme a perfetti estranei. Subito, iniziò a girarmi la testa. Accidenti a loro e ai loro spritz, non mi ci abituerò mai. Per me, il vino è troppo sacro e puro per mescolarlo con qualcos’altro.

Uscii a prendere una boccata d’aria, ma era più che altro una scusa per stare un po’ da solo e far passare il tempo. Presto, il ronzio di fondo delle umane chiacchiere si allentò e si spense e il silenzio prese a torreggiare su di me. La sera avanzava, la luce del giorno si ritirava fra i palazzi e i rumori del traffico si affievolivano. Quando mi accinsi a tornare dentro, mi accorsi che erano passati solo dieci minuti. Dieci minuti! Non ero riuscito a ingannare il tempo, come avrei fatto a far trascorrere tre ore?

Quando rientrai mi accorsi che qualcosa era cambiato. Ognuno faceva gruppo con qualcun altro, scambiava pacche sulla spalla col vicino e rideva. Facevano conoscenza fra di loro con insolita rapidità. Stavano diventando una sola famiglia, ma io rimanevo un estraneo. Nessuno parlava con me, né io con gli altri. Li univa una forza segreta che mi teneva in disparte.

Ciononostante, li sentii simili a me. Eravamo gocce dello stesso oceano.

            “E’ libero?” chiesi avvicinandomi a un tavolo e sperai che lo fosse, perché era l’unico posto non occupato.

“Ma sì che è libero, è il tuo posto. Presto, la pizza si fredda”

Mi accomodai, nel più profondo imbarazzo, a un tavolo di sconosciuti. Una coppia, marito e moglie, parlottavano fra di loro, un’altra taceva e un’altra ancora non parlava neppure italiano. Io ero l’unico ospite solitario, senza moglie, compagna, dolce metà, o il termine che più vi aggrada. La mia altra metà, nient’affatto dolce in quella circostanza, aveva elegantemente dato forfait all’ultimo minuto, troppo tardi per disdire la prenotazione e, in ogni caso, fuori tempo massimo per non deludere i miei figli. Solo per loro avevo acconsentito a sottopormi a quella tortura.

Ora, io vi chiedo, e siate sinceri nella risposta, anche i più estroversi fra di voi: non vi mette in ansia sedere con perfetti sconosciuti e non sapere cosa dire? Se la risposta è sì, allora comprenderete le mie pene.

Una donna teneva banco, parlava in continuazione, forse più a sé che agli altri, ma quasi tutti l’ascoltavano, o forse, fingevano di ascoltarla. Era seduta accanto a suo marito, ma non gli rivolgeva mai la parola. Egli la guardava, ne era innamorato, si vedeva, sembrava pendere dalle sue labbra e anche lei ricambiava il suo sguardo. Moglie e marito si studiavano timidamente, forse sentendosi estranei, come capita, a volte, fra chi si conosce a fondo. Era più che altro lei a parlare, lui si limitava ad annuire. Di tanto in tanto, coinvolgeva anche me nel discorso, di cui mi giungevano solo alcuni frammenti fra il chiacchiericcio generale, con rapide occhiate o veloci sorrisi. Aveva gli occhi di un blu profondo, come quello degli abissi marini. Ma non era una sfumatura inquietante, una sensazione di sgomento, come quella che provo al cospetto di donne dagli occhi troppo chiari.

“Posso farti una domanda imbarazzante?” chiese all’improvviso.

Ne fui sorpreso, ma riguadagnai subito la calma. Non sapevo proprio dove potesse andare a parare, in fondo per lei ero un perfetto estraneo, più degli altri che la circondavano. Mi venne fuori, non so come: “Le domande non sono mai imbarazzanti. A volte, lo sono le risposte”.

Sorrise, finalmente solo per me.

Quel poco che ho da dire, cerco di dirlo con i migliori mezzi a mia disposizione.

“La tua risposta ha anticipato la domanda che stavo per farti.”

“Quale?” chiesi, ormai, incuriosito.

“Tu scrivi?”

“Ehm… sì. Ho pubblicato un paio di libri: una trilogia di racconti e un romanzo. Ma come fai a saperlo?”

“Una mia amica ha visto la tua opera in libreria”

“Ah sì?” Pensai alla fatica che avevo fatto per convincere la libraia a esporre il mio volumetto nella sua botteguccia. Alla fine, il mio libro nella sua copertina rosso scuro si pavoneggiava fra un romanzo di Verne e un saggio di Holderlin. “Ma non aspettatevi niente di eclatante, non sono un Dostoevskji”.

“Ma lei l’ha letto e le è piaciuto. Così, l’ho comprato anch’io”

“Grazie” arrossii.

“Per quale motivo hai scritto un libro?” mi chiese suo marito. Pensai che fra le domande più banali e inutili non ne avrebbe potuto tirar fuori una peggiore. Ma mi attrezzai a rispondere per le rime.

 “Scrivere è come essere innamorati.” Lo guardai negli occhi, poi proseguii rivolto a sua moglie. “Quando sono preso da una storia non mangio, non dormo, ho la testa fra le nuvole. Non vivo che per lei.”

Mi guardarono come se avessi parlato loro dei misteri di un altro mondo. La donna riprese il filo della conversazione e il controllo del tavolo.

Finii di mangiare e chiesi il permesso per andare a cercare i miei figli. Mi fu accordato. Mi alzai portando con me la birra, per darmi un contegno tracannando direttamente dal collo della bottiglia.

Girovagai fra corpi estranei, timido e smarrito quanto può esserlo un uomo. Mi accorsi solo allora, chissà perché, che dal soffitto pendevano sulle nostre teste vele di barche. Li cercai con lo sguardo e ci misi un po’ a trovarli. Erano lontani, in fondo alla sala, i volti accesi in emozioni di bambini avvinti dal gioco. Ne indovinavo a stento i tratti familiari fra volti estranei. Mi fece bene vederli. Sentii che ci appartenevamo, una sensazione che non aveva bisogno di parole. Mi rinfrancai e finii di bere la mia birra.

Se non sei felice, comportati come se lo fossi. La felicità arriverà in seguito. Mi ricordai del vecchio precetto ebraico (2) e mi costrinsi a uniformarmi a esso. La pesante cappa di solitudine che gravava sul mio essere si frantumò al suolo e mi sentii leggero. Mi appoggiai al tavolo da gioco e più volte fui coinvolto nei giochi.

Più tardi lei mi raggiunse e con fare amichevole scambiò con me alcune parole. E’ incredibile quante cose, a volte inutili, riescano a dire le donne in così poco tempo. Faceva l’architetto, ma di recente, a causa della penuria d’incarichi di progettazione, aveva rispolverato un suo vecchio sogno: insegnare. Trovò anche il tempo di farmi sapere che la città verticale (3) è stato un pensiero urbanistico molto in voga nel Novecento. Mi resi conto che, pur essendo inutili, le sue parole erano vere e inconfutabili. Mi sentii sfiorare le spalle e a tratti il suo corpo aderiva al mio. Forse aveva bevuto un po’ più del suo solito, ma non puzzava di alcol. Giudicai che il confine fra l’amichevole e il qualcos’altro fosse stato abbondantemente superato. Scrutai il tavolo alle nostre spalle. Suo marito sghignazzava con gli altri commensali, pareva anche lui abbastanza brillo.

“Ho bisogno di prendere una boccata d’aria. Ti dispiace?”

“Niente affatto” e mi seguì in giardino. La notte incombeva sulle cime degli ontani, la brezza frusciava fra il bosso e le rose canine, il pallon di maggio si fletteva nell’aria tiepida e dove eravamo seduti sentivo il suo profumo. Fra l’erba dormiva lo scafo di una vecchia barca a vela. Il mare era lontano mille chilometri.

“Sai, devo confessarti una cosa”

“Cosa?”

“Io non so leggere”

“Come non sai leggere?” Era terribilmente seria.

“Proprio così, non so leggere.” Sospirò. “Non nel senso che sono analfabeta, ma ciò che intendo dire è che non trovo nulla di interessante nei libri, non so leggerli.”

“Vedi che il mondo è strano. Io scrivo libri e tu non sai leggere. Che scrivo a fare?”

Rise.

Risi anch’io, ma divenni subito serio. “Scrivere è devastante. Io provo tutto quello che provano i protagonisti delle mie storie, gioia, dolore, desiderio, tristezza. Sento tutto quello che sentono loro. Tutto. Bisogna essere pronti a qualsiasi evenienza.”

Si tolse i sandali e andammo a sederci sull’erba.

La coppia che non parlava italiano uscì in giardino e si riparò nell’ombra di una farnia. Le loro ombre presero a fare strane cose, come se anche l’amore e il sesso nel loro paese parlassero altri linguaggi. Strano e straniero si dice quasi allo stesso modo.

“In uno dei miei racconti, la scrittura ha svelato un mio profondo, inaspettato complesso edipico.” Proseguii, ma era inutile.

Non mi ascoltava più. Mi accarezzò la nuca e mi attirò a sé.

Sentii sulle labbra il suo sapore. Nicotina, coca cola, cioccolata. Una combinazione bizzarra e sensuale. Era fresca e calda, al tempo stesso. I suoi capelli erano morbidi e profumati. Intorno a noi l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, la luce e le tenebre, in un flusso circolare, ininterrotto, un cerchio in cui non si può distinguere l’inizio e la fine.

“Ora devo tornare da mio marito” disse.

Guardai l’orologio. Sobbalzai. Era tardissimo, mi ero dimenticato dei miei figli, la festa stava per finire. Le tre ore erano volate. Se non fossimo rientrati immediatamente, ci avrebbero sorpresi dietro il sanguinello in un imbarazzante abbraccio.

Trovai i miei figli ad aspettarmi, un po’ imbronciati per la fine della festa. Forse, il tempo per loro scorre più veloce che per noi. Non si erano neppure accorti della mia assenza. I loro mondi, puri e perfetti, non hanno bisogno di padri e madri imperfette. Li baciai e li abbracciai sentendomi colpevole e, al tempo stesso, innocente.

Fuori, odore di ozono e di erba bagnata. Stava cominciando a piovere. Sapevo che lei era dietro di me, ma non mi voltai. Forse anche lei tentava di non guardarmi. I suoi occhi blu profondo cercavano una risposta sui volti dei suoi bambini. Negli occhi dei suoi figli, negli occhi dei miei figli si aprivano baratri, precipizi, voragini.

Abissi che né io né lei avremo mai colmato.


(1) Lo specchio.

(2)  In realtà, non è un precetto ebraico, ma è una frase tratta da Un consiglio di Isaac Singer.

(3) Titolo del mio primo romanzo.


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