giovedì 19 febbraio 2015

Un re


 

            Non ho molto tempo per la pausa pranzo, le mie giornate lavorative sono frenetiche e spesso sono come risucchiato in un vortice nel quale il tempo scorre veloce, le lancette avanzano inesorabili e finisco per timbrare il cartellino molto oltre l’orario di uscita. E uscendo incontro per le scale gli impiegati che rientrano, avendo già terminato il loro pasto. Così, non mi resta molto tempo per mangiare. Del resto, mi accontento di un primo – generalmente un piatto di risotto alle ortiche, una ciotola di cuori di burro al vapore, oppure una porzione di pizzoccheri alla valtellinese – e un contorno abbondante, che fa da antipasto e da secondo, il tutto innaffiato da un buon bicchier di vino. Consumo il mio frugale e veloce pasto, sbirciando, fra un boccone e l’altro, i titoli in prima pagina. Le notizie, quelle no, non ho il tempo di approfondirle, lo farò a casa, se mi avanzerà del tempo. Così, quando rientro al lavoro ho gli occhi pieni di slogan a caratteri cubitali: il Pil scende, la disoccupazione sale, la preoccupazione regna sovrana.

            Tuttavia, quello che davvero desidero non è tanto riempirmi la pancia, quanto godere di alcuni minuti di tranquillità che possano spegnere l’incendio della mia testa in fumo per lo stress. Parlo il minimo indispensabile, giusto per l’ordinazione e, ascolto ancor meno. Lo so, non risulto troppo simpatico, ma cercate di comprendermi, ho davvero poco tempo. Ora, se i camerieri assecondano questo mio desiderio di tranquillità, tutto fila liscio, consumo velocemente il mio pasto, sorbisco il caffè mentre pago il conto – perché tempo ce n’è sempre meno e, tanto per cambiare, sono in ritardo – e me ne vado. Ma a volte non accade. Essi scambiano il mio desiderio di quiete per freddezza, alterigia, eccesso di riservatezza. Credo in verità che mi giudichino un cliente alquanto stravagante, che arriva tardi, pretende di essere servito immediatamente e chiede il conto prima di aver finito di mangiare, e fanno quanto in loro potere per molestarmi con la scusa di portar via il piatto che non ho ancora terminato e al quale mi aggrappo con le unghie e con i denti come se fosse l’ultimo pasto di un condannato a morte. Oppure, mi chiedono se desidero altro, mentre sono ancora a metà del primo, o se possono portare il caffè quando ho appena messo in bocca la prima forchettata del contorno. Ma la domanda più seccante di tutte è: “Tutto bene?”. E io, cosa dovrei rispondere? Che andrebbe bene se ti levassi dai piedi e mi lasciassi mangiare in santa pace. Ma non lo faccio, in fondo il cameriere sta lavorando, mica si diverte e io nutro un profondo rispetto per il lavoro, anche se chi lo svolge è a volte importuno e fastidioso.

            Ecco, in quei casi, sono costretto a difendere la mia isola privata dal vento impetuoso dell’invadenza con occhiate fulminanti e feroci e, il più delle volte, è sufficiente, non devo ricorrere al mio arsenale di battute taglienti e glaciali, sempre a portata di mano.

            Era da poco che frequentavo quel ristorante, me l’avevano descritto come un posto tranquillo e devo dire che non si erano sbagliati, per questo andavo sempre lì. Da qualche tempo avevo la fortuna di essere servito da una cameriera che aveva compreso appieno i miei desiderata e faceva del suo meglio per soddisfarli. Così, quando entravo in sala, la cercavo con lo sguardo e poco dopo potevo approdare all’isola di tranquilla felicità che aveva apparecchiato per me.

Generalmente, dopo che mi ero seduto a tavola non la degnavo di uno sguardo, i miei occhi non salivano oltre il livello del tavolo, immerso com’ero nelle pagine di carta stampata, ma mi piaceva molto vedere le sue mani candide e curate che si affaccendavano sulla tovaglia. Tuttavia quel giorno, non ne ricordo bene il motivo, forse perché dovetti ripeterle l’ordinazione che non aveva ben compreso, o per qualche altra causa che ora mi sfugge, i miei occhi indugiarono un po’ nei suoi, prima che entrambi ci ritraessimo in reciproco imbarazzo.

Ne nacque una sorta d’intesa tacitamente proclamata, che si rafforzava giorno per giorno, fra rapidi sorrisi, gesti garbati e rarefatte parole che, a una lettura superficiale, avevano un significato banale e ordinario, ma che, a un livello più profondo, potevano significare tutt’altro. Ed era il tutt’altro che intuivo in quei gesti cortesi e in quelle parole gentili a intrigarmi. Certo non v’era nulla di eccezionale. Erano frasi banali come: “Desidera altro?”, o “Tutto bene?”, accompagnate a volte da un lieve sfiorarci le mani che avveniva come per caso, domande alle quali avrei voluto rispondere che no, non andava tutto bene da quando c’era lei a servirmi e che l’altro che desideravo non era ancora vino o un caffè, ma i suoi occhi nocciola chiaro, i suoi capelli color del miele, le sue labbra rosate e le sue mani candide e curate.

Quegli occhi mi riportavano indietro nel tempo, avevo sedici anni e mi piaceva una certa ragazza, il suo sguardo mi bastava per una notte intera e l’estate alla fine della scuola durava quanto l’eternità. Com’erano fragili quegli anni, e come eravamo fragili noi.

            Un giorno arrivai in anticipo. Un bel sorriso illuminò il suo volto e mi accolse con parole e gesti più gentili del solito. Aveva i capelli legati dietro la nuca e la luce artificiale del salone si spandeva sul suo capo in un fulgore color del rame. C’erano pochissimi clienti, a parte me. Dopo aver ordinato, come se avessimo atteso un tacito segnale, iniziammo a conversare amabilmente, da buoni conoscenti, come non eravamo. Parlavamo della vita, della mia e della sua, che erano come banche i cui conti non tornavano.

Un tedesco al tavolo accanto la chiamò con suoni crudeli che parevano rigurgiti e dovette allontanarsi. Il tempo era volato ed era tardissimo. Non avevo mangiato neppure un boccone. Mi alzai e mi diressi al banco per il caffè e il conto.

Mescolai lentamente lo zucchero nel caffè, otto volte in senso orario e otto volte in senso antiorario e ancora daccapo. Avrei voluto che il tempo si fermasse. Quando portai la tazzina alle labbra il caffè era freddo e rabbrividii. Pagai e salutai.

“Ciao” disse e mi parve il verso di un felino in amore, e forse lo era davvero. Feci finta di non accorgermi dell’ammiccare repentino che velò per un istante la luce che brillava nei suoi occhi e mi allontanai nel vento e nella pioggia.

Ma la pioggia era troppo fitta e il vento troppo impetuoso e tornai subito sui miei passi. La trovai ancora alla cassa ad armeggiare con fatture e ricevute e conti che non tornavano. Sorrise. Non mi parve affatto stupita del mio ritorno. Era sicura di aver seminato bene in me. Era vero. Il seme era germogliato e già si faceva una pianta rigogliosa. Mi piaceva il colore dei suoi capelli, la luce nei suoi occhi, così mi lasciai condurre nella sua stanza.

Volle accendere soltanto una candela per rischiarare il buio. E non fu una cattiva idea.

La luce rivestiva il suo corpo nudo di tenui bagliori, un alone caldo, rosato le sfiorava i seni, la vita, le anche, il ventre. Sciolse i suoi capelli. Era come un acquerello dipinto sulle tenebre con il pennello intinto nella debole luce di una fiammella. E, di fronte a una tavola apparecchiata da mille delizie, scoprii di avere fame.

Lei cercò i miei occhi e sorrise ancora per dire sì.

E svelò un tesoro nascosto, celato nella profondità del suo mistero. 

E io lo conquistai quel tesoro, lo ebbi tutto per me, e ancora e ancora e ancora, finchè non giacemmo avvinti, sfiniti, estranei, in una coltre di nuvole.

La candela si spese. Una folata di vento, credetti, e mi affrettai a riaccenderla. Fui interrotto da una luce abbagliante, improvvisa. Il suo bagliore era freddo e asettico, insopportabile, tanto che avrei scambiato il dono della vista con la luce calda e imperfetta della candela. Non era stato il vento. Mi cacciò dal suo letto. Il re era stato spodestato dal trono.

Raccolsi i miei vestiti. Mi ritrovai ancora nel vento e nella pioggia, la notte era durata un’ora soltanto e già il mio trono era caduto. Avevo il suo profumo addosso e sulla punta delle dita, il suo sapore nella bocca e il suo calore dentro il cappotto. Mi misi a correre. Perché devo camminare, se posso correre? Perché devo strisciare, se posso volare? Ma era lei a trattenermi al suolo, a fare di me un verme che striscia e si graffia il ventre sulla fredda terra.

Non misi mai più piede in quel ristorante. Passai giorni che furono un inferno di incubi famelici e striscianti. Poi, mi accorsi che qualcosa era cambiato. Fuori era primavera inoltrata e la città stiracchiava le membra di cemento al suo calore. Allora sorse e crebbe forte in me il desiderio di rivederla. Cominciai a pensare a lei notte e giorno, invece di lavorare, facevo sogni a occhi aperti, fantasticando su un nostro futuro a due, ma mi svegliavo sudato e ansante nel cuore della notte, perché quel sogno si era trasformato in un incubo. Non saprei dire né come né perché, ma quella donna così bizzarra era entrata in punta di piedi nei miei sogni e non se ne voleva andare. Così un giorno tornai al ristorante e mi sedetti al tavolo più appartato. Venne un cameriere a ricevere l’ordinazione e mi accorsi che il suo sorriso era sarcastico, senza che mi potessi spiegare il perché. Di lei nessuna traccia.

Mangiai senza gusto cuori di burro al vapore, che in altri momenti avrei apprezzato. Masticavo lentamente e mandavo giù i bocconi senza sentire alcun sapore, come quando si ha il raffreddore. Poi, ordinai un caffè e mi avviai a pagare il conto.

E la vidi. Sbucò da dietro una tenda e mi comparve davanti, come faceva ogni volta con i clienti, per preparare la ricevuta. Era un po’ ingrassata dall’ultima volta, ma era splendida e raggiante. Con gesti freddi e veloci preparò il conto, senza guardarmi mai negli occhi, tanto che dubitai che mi avesse riconosciuto. Allora le presi una mano e fu costretta a vedermi. Sul suo volto si dipinse un’espressione di disappunto, che tentò di celare con un velo di freddezza, ma non ritrasse la mano. In quel momento, udii una sorta di miagolio e mi sporsi sul bancone incuriosito, per vedere da chi provenisse quel verso. Dietro la tenda socchiusa c’era una culla e dentro la culla un bambino.

Erano trascorsi nove mesi dalla perdita del mio regno.

Si divincolò dalla presa e si affrettò a richiudere la tenda. Poi, mi spinse verso la stanza adiacente. Non ero riuscito a vedere in volto chi dormiva nella culla.

Seppi che il suo più grande desiderio era quello di avere un figlio, ma non cercava un padre per lui. Aveva amato molto e molto aveva sofferto per amore, non avendo mai trovato l’uomo che potesse proteggerla e scaldarla nelle lunghe notti d’inverno. Così, aveva giurato a sé stessa che mai più un uomo sarebbe stato tanto importante da ridursi in ginocchio ai suoi piedi. Voleva un re per far di lei la regina di una notte, un monarca a tempo determinato che abdicasse, che rinunciasse al trono in cambio di una notte d’amore. E poi svanisse per sempre e che le tenebre cancellassero il suo nome come quello dei morti. E così era stato. In un colpo solo, il re di una sola notte si era lasciato dietro una vedova e un orfano.

A quella donna non importava nulla di me. Non aveva voluto sapere chi fossi, da dove venivo, se fossi in grado di garantirle un tetto e a quanto ammontava il mio conto in banca. A lei non importava un fico secco di me. Le erano interessati un bel paio di occhi neri, questo sì, e membra solide che dovevano aver rivelato al suo istinto di donna le caratteristiche di una discendenza forte e sana. Nient’altro. I baci, gli abbracci, le carezze nel buio, i sospiri, le mie dita fra i suoi capelli, i suoi occhi nei miei, erano orpelli, ornamenti, fronzoli del mistero della vita. Essa non aveva apparecchiato che meri contorni del pasto, mentre la portata principale, di due soli ingredienti, cromosomi x e y, già si preparava nel buio del suo ventre.

Le chiesi più volte, la implorai, la supplicai di lasciarmi vedere suo figlio, mio figlio, una sola volta e poi sarei sparito per sempre dalla loro vita, dal loro regno sul quale sentivo di non poter vantare alcun diritto. Non ci fu nulla da fare. Fu irremovibile, dura e tagliente come una roccia modellata dal ghiaccio e dai venti. Non mi permise di vedere il bambino. Seppi solo che era un maschio e godeva di ottima salute. Poi dovetti prendere la porta.

Tuo figlio ha i tuoi occhi, mi parve di sentire.

Mi voltai, ma era già sparita dietro la tenda di velluto nero che nascondeva mio figlio e non seppi mai se fosse stata davvero lei a pronunciare quella frase, o la mia immaginazione a inventarsi quelle parole con intento consolatorio.

Mi sentivo a pezzi. Ancora una volta abbandonavo senza gloria quel luogo infausto, affranto, sconfitto, abbattuto come la statua di un sovrano spodestato. Non sapevo da dove venivo né da che parte andavo e il paesaggio era conforme al mio stato d’animo. Una distesa brulla, piatta, indecifrabile come il mistero che mi stava crescendo nel cuore. Un re senza una terra, la terra senza un re. Un padre senza il figlio, il figlio senza un padre. Non riuscivo a risolvere quell’enigma, senza riconnettermi alla mutata sensibilità dei miei anni. Se tutte le donne del mondo avessero rinunciato agli uomini, come un sesso ormai inutile e superato, lo avrei accettato, ma così no, non riuscivo a farmene una ragione. Eppure, più mi allontanavo da quel luogo, più sentivo che quella donna e quel bambino non avevano più alcun significato per me, erano stati un mero incidente di percorso, un’impronta lungo il sentiero del destino che dovevo lasciarmi dietro.

Come una lente d’ingrandimento concentra i raggi solari in un solo punto luminosissimo e appicca il fuoco, così concentrai le mie riflessioni esclusivamente su me stesso. E giunsi a una conclusione. Ero io il padre e al tempo stesso il figlio. Com’era possibile? Il padre e il figlio di me stesso? Ebbene sì, ciò era possibile, ma solo in un sogno. Era stato soltanto un sogno, un balordo infingimento, un delirio razionale, una bizzarra interconnessione temporale di due linee vitali e null’altro? Alla domanda non riuscii a far seguire una risposta. Ma mi accorsi che non mi faceva più male.

E sotto la lente deformante della mia coscienza, lentamente presi fuoco. E arsi, arsi fino in fondo, mi dibattei fra le fiamme dell’infermo, fiammate catartiche si sprigionarono all’interno del mio essere e bruciai completamente. Andai completamente a fuoco. E di ciò che ero stato rimase soltanto cenere.

Mi ritrovai, non so come, nei pressi di casa mia. Meccanicamente salii le scale e aprii la porta. Avevo in mente qualcosa. Ed era più forte di me.

Dovevo fare qualcosa che non serviva a niente.

Mi sedetti allo scrittoio, accesi la lampada, distesi un foglio e impugnai un mozzicone di matita. In cuor mio ero sicuro, pur senza rinvenirne una ragione, che quell’atto, nella sua perfetta inutilità, potesse servire a qualcosa.

E come segni arcani tracciati da un bastone sulla sabbia del mare, vocali, sillabe e consonanti nascevano sul foglio, e crescevano e si moltiplicavano. Finito il foglio, ne prendevo un altro e ricominciavo daccapo. In pochi minuti, la scrivania era ricoperta di decine di fogli di carta da me vergati, e altrettanti ve n’erano ai miei piedi. Il pavimento aveva mutato colore e ora camminavo sulla neve vergine, scivolando a ogni passo, ora fluttuavo su quella distesa di carta, che era stata foglia, corteccia e albero ed era ora la cosa più effimera al mondo, la vita di un uomo racchiusa in un pezzo di carta.

 

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