domenica 21 dicembre 2014

Tra le braccia della Spagna




Perdido en el corazòn
de la grande Babylòn.

                                                                                                                      (Manu Chao)

 

Quello che fa più male

è ciò che non puoi avere.

(Antonio Scafa, filosofo amatoriale)
 

La Spagna mi accolse di notte, come una tenera amante, madre e puttana, fra le dune sabbiose delle Baleari e il Mediterraneo silenzioso. Davanti a me si apriva una nuova vita e la brezza marina mi alitava in viso il profumo dell’ignoto.
L’autobus arrancava faticosamente nelle strette calli della cittadina balneare e mi accorsi ben presto di non essere stato il solo ad avere avuto la balzana idea di dare sollievo alle peregrinazioni del cuore, tuffandomi in un viaggio così lontano dal mio stile.  
Sui sedili in fondo alla corriera, sedevano speranzosi, italiani dal cuore infranto.
 
 
  1. Un rifugio confortevole e conosciuto
 
La ragazza ballava al centro della pista, poi mi guardava e sorrideva, dimenando i fianchi al ritmo di una musica assordante. Le sue gambe sottili, sospese su tacchi ancor più sottili, si muovevano al pari di quelle di un trampoliere nella massa di corpi sudati. L’allegro caos della danza ci portò vicini.
Danzammo insieme. Io la prendevo per i fianchi, assecondando il ritmo della musica e lei abbandonava la testa sul mio petto, come per cogliere un momentaneo riposo. Ma, di tanto in tanto, senza preavviso, voltava le spalle e andava a ballare da sola, al centro della pista. Eppure tornava ogni volta sui suoi passi.
Le mie mani si facevano intraprendenti e le afferravano i fianchi con vigore, carezzandole il ventre e la schiena, come se conoscessi quel corpo alla perfezione e in un’altra vita lo avessi amato. Più osavo, più si arrendeva a me e la sua testa tornava ad abbandonarsi sul mio petto, come se ritrovasse un rifugio confortevole e conosciuto.
 
 
  1. Due bicchieri di gin lemon
 
Non dimenticherò mai quella notte che le dissi davanti a due bicchieri di gin lemon: “Sus ojos estàn como estrellas” (1), e lei rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e diceva che gli uomini, che siano italiani che siano spagnoli, son tutti uguali, sempre pronti a stordire le donne con cascate di parole dolci, per poterle scopare senza sentimento, mentre il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a fregarci le donne. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava una musica latina, avvolgente e sensuale e c’era chi cantava: “La vida es pura pasiòn” (2).
Non dimenticherò mai quella notte che lei disse: “Vamos a bailar al Tito’s. Adios!” (3), mentre rideva di gusto, di un riso pieno che le riempiva la bocca e le faceva brillare gli occhi, e sparì per le strade del porto, e il barista scuoteva la testa e pensava: “Tutti uguali questi italiani! Sempre pronti a innamorarsi della prima femmina che gli si para davanti. Ma perché non se ne stanno a casa loro?” e nell’aria andava lo stesso ritmo latino, potente e delicato, avvolgente e sensuale.
 
(1) ”I tuoi occhi sono come stelle.”
(2) “La vita è pura passione”
(3) “Andiamo a ballare al Tito’s. Addio!”
 
 
3. La regina delle puttane
 
“Andiamo a fare l’amore!” disse la nigeriana cingendomi i fianchi sotto una palma. Io palpai quella scultura di ebano e avorio e chiesi: “Quanto?”.
“Tremila pesetas.”.
Andammo dietro l’albero. La presi per la vita e l’attirai a me. Sentivo forte il suo odore di donna e di polvere e sudore e del sole della strada.
“A proposito” feci “Domando sempre pagamento anticipato, quindi fuori i tremila”
Lei mi guardò sbigottita, i suoi grandi occhi neri s’accesero nella notte. Poi comprese.
“Tu disgrassiato!” disse e mi afferrò dolcemente per il collo, mentre un inaspettato sorriso rivelava i suoi nobili lineamenti.
Era bella. Avrebbe potuto essere una principessa in terra d’Africa, ma in quella notte di Spagna era solo la regina delle puttane.
 
 
              4. Nella casa a occhi chiusi
 
L’aria sapeva di corpi sudati, di profumo da donna in svendita al centro commerciale, dolciastro e nauseante come una bibita gassata e di accessori in latex. Avrei potuto scrivere una storia a occhi chiusi, lasciandomi guidare solo dagli odori e dai suoni che il respiro artificiale del condizionatore mi portava al naso e alle orecchie.
Sentivo attraverso la mano il velluto dei divani del privèe, il freddo bagnato dei bicchieri, il velluto di gambe di donna e ancora il velluto dei divani del privèe. Poi, la piacevole freschezza di un giovane corpo sconosciuto, labbra umide e calde sulla pelle, la trepidazione di una bocca in attesa e la soffice consistenza di seni sontuosi.
E il fruscio di letti disfatti nel buio di una stanza, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri e il lamento di una donna, come un canto.    
 
 
5. Fratelli e sorelle del Kossovo

 

Shefrah distendeva il corpo sinuoso e poggiava la testa sull’anca di Nydah. Nydah abbandonava il capo su un fianco di Shefrah. I capelli corvini delle sorelle kossovare si fondevano in una sola fluente chioma che ardeva come viva fiamma e il sole plasmava sulla sabbia l’ombra di una figura mitologica bicefala. Così unite, si crogiolavano al sole, languidamente distese sulla spiaggia del mare. Nessuno osava avvicinarsi a meno di cinque metri dalle ragazze e tutti sapevano perché. Tranne gli italiani.

Quando gli audaci militi dell’italica avanguardia estesero il loro territorio di conquista agli asciugamani occupati del Kossovo, conobbero anch’essi la verità e pensarono bene di chiedere l’intervento delle Nazioni Unite.

“Non possiamo uscire, non possiamo andare in discoteca, non possiamo parlare con gli estranei.”, disse Shefrah.

“Nostro fratello non vuole.”

 
 
6. Il dipinto appena servito
           
La paella bollente esalava vapori profumati dalla scodella di coccio smaltato. Il nero di seppia sovrastava il rosso pompeiano dei pomodori, e gamberi dai riflessi ramati e mitili di bistro erano esposti come in una natura morta. I crostacei sfumavano la loro lucentezza nel biancore del riso e la birra gelata Cuzcos spargeva bagliori giallo cadmio alla vivida luce del sole.
Poco lontano, Paco il cameriere ammirava soddisfatto il dipinto appena servito.
 
7. Un’azione, un gol
 
Il Real Madrid avanzava impetuoso, travolgendo la pur strenua difesa del Deportivo La Coruna. Alle azioni della squadra di casa mancava, però, il gol.
Le amiche spagnole giocavano a carte, prestando un occhio distratto alla televisione e, di tanto in tanto, al gioco. La loro attenzione era tutta per gli ospiti dell’albergo. Erano letteralmente rapite da volti stranieri, da sguardi inconsueti, da gesti insoliti. Il fidanzato inglese non si curava affatto di loro, mostrava grande interesse per la partita, non perdendosene un’azione e non gli importava alcunchè degli ospiti dell’albergo.
Le ragazze erano molto attratte dagli italiani. Con loro avevano instaurato un reciproco gioco di sguardi e sorrisi. Il loro interesse era contraccambiato e cresceva a ogni nuova occhiata, ma non aveva ancora raggiunto il livello che gli italiani speravano.
Ma, dopo tante azioni del Real, la prima e unica folata offensiva del Deportivo ebbe il dono della trasformazione in rete. Le ragazze esultarono.
Entrò in quel momento un giovane dal volto misterioso, si affacciò sulla porta e con un solo sguardo abbracciò l’intero salone. I suoi occhi azzurri scintillarono nella penombra e si soffermarono per un breve istante sulle due amiche. Poi uscì e tornò in strada.
Le ragazze si erano ammutolite sotto il peso del suo sguardo e arrossirono. Era forse l’uomo più bello che avesse mai calpestato la terra di Spagna? Esse si guardarono in volto alcuni istanti e decisero che si, lo era. Si alzarono dal tavolo da gioco, attraversarono la hall ticchettando e si affrettarono a raggiungerlo.
Non avevano degnato di una parola o di uno sguardo gli italiani, né tantomeno il fidanzato inglese.
La partita intanto era terminata. Egli spense il televisore e si avvicinò agli italiani.
“Un azione, un gol” disse loro e si avviarono insieme al bar a berci su.
     
 
              8. La danzatrice
 
La danzatrice sul cubo osservava un tedesco attempato con l’addome voluminoso, sdraiato comodamente sul lettino da spiaggia, guardava un gruppo di giovani che tracannava sangria, attingendola da una colonna di plastica trasparente alta più di un metro e notava la sbronza allegra di un crucco dagli occhi neri. Quindi il suo sguardo si soffermava su un paio di donne dai capelli corti che sghignazzavano sorseggiando grossi boccali di birra e sui fianchi ancora acerbi di certe ragazzine bionde che si dimenavano nel ritmo forsennato e pensava che da più di un’ora si trovava lassù, seminuda, esposta agli sguardi di tutti, ad agitarsi a suon di musica.
Allora, s’immaginò trasparente come l’aria e le parve che gli sguardi le trapassassero il corpo da parte a parte senza farle alcun male. Come avrebbe voluto liberarsi dalle catene della gravità che la tenevano ancorata a quel pulpito traballante. Allora, si concentrò ancora un poco e si sentì subito libera e leggera, senza peso.
Un tedesco alto e forte chiese alla cameriera di portargli dell’altra sangria, una donna di mezz’età, ma ancora in grado di attrarre sguardi maschili, si arrampicò su un alto sgabello e accavallò le gambe, mentre un’altra, più giovane, diede un bacio sulla bocca all’uomo che le stava accanto. Intanto la danzatrice si sentiva sempre più lieve e sempre più trasparente e non si rendeva conto di aver smesso di danzare. E rimase immobile sul cubo come una statua su un piedistallo.
Prima una mano, poi un’altra e un’altra ancora, la additarono e mille occhi si fissarono su di lei, a rimirare quell’insolito avvenimento. Ma la ballerina, con gli occhi sognanti e persi nel vuoto, non si era accorta di essere diventata, all’improvviso, oggetto di tanta attenzione. Perfino la musica si arrestò e un silenzio irreale calò sulle persone. Tutti guardavano a bocca aperta con il volto dipinto dallo stupore, alcuni boccheggiavano come pesci perché la sangria si era fermata loro in gola e articolavano espressioni gutturali e incomprensibili.
Nulla aveva più alcun senso, come il sole che tramontava e la folla ammutolita, e il cubo pareva un piedistallo abbandonato dalla statua che doveva sostenere. La danzatrice aveva spiccato il volo e planava ora sulla spiaggia, ora verso i bassi fondali vicino alla costa, dove indugiava sospesa nell’aria e, assumendo nel suo volo più destrezza ed equilibrio, si diresse, senza più timore, verso il mare aperto.
 
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