giovedì 17 ottobre 2013

Il tesoro





Una volta abitavo in un paese molto povero. Eravamo bambini nati e cresciuti ai margini dei campi, come l’ortica, come fiori selvatici. Non avevamo niente e ci accontentavamo di niente, piccole cose, bottoni, biglie di vetro, sassi di colori bizzarri e delle forme più strane, frammenti di giochi più antichi di noi. Povere cose perse nelle strade polverose. Ognuno di noi aveva un nascondiglio nel quale accumulava tesori inestimabili.

Più tardi, ricco fra i ricchi, di tutto quello che ebbi, che possedetti, che acquistai, che guadagnai, nient’altro mai fu tanto mio.

Erano anni felici, nonostante la povertà. Bastava così poco. Il profumo sacro della terra, delle zolle rivoltate di un campo appena arato, l’ondeggiare delle spighe di grano nel vento, il rifugio nell’ombra verde e quieta dei pini, i profili irregolari dei rovi e dei moreti, gli ulivi secolari contorti e piegati come vecchi nodosi, ma invincibili, il frinire delle cicale al tramonto, perfino il respiro del vento che sussurrava tra le case del villaggio e portava con sè gli echi di canzoni antiche che non ho mai più ascoltato. Eravamo padroni del mondo e ogni cosa ci apparteneva. Non avevamo niente, eppure avevamo tutto.

E ora mi chiedo: dov’è finito tutto questo? In quale parte del mondo, della memoria o del mio cuore è custodito? E’ tutto perduto per sempre?

La memoria gioca brutti scherzi.

Vi sono dei ricordi dai quali è impossibile liberarsi, anche per un solo istante e ricordi che, invece, giacciono abbandonati in angoli remoti della mente, come vecchie sedie sfondate in soffitta. La storia che sto per raccontare appartiene al primo tipo: è incisa nella mia memoria come il nome di un morto sulla lapide.

      A quell’epoca non avevo ancora compiuto sei anni e vivevo insieme alla mia famiglia in un villaggio del meridione sferzato dal vento, dove la neve faceva la sua comparsa in novembre e resisteva fino al primo sole di aprile. La nostra casa era vecchia e gelida e le pareti imbiancate di fresco non facevano che accentuare la sensazione di freddo.

     Mia madre mi accompagnava ogni mattina a scuola materna, ogni mattino di quegli inverni lunghissimi e imbiancati e ogni pomeriggio attendeva il mio ritorno a casa. Avevo molti amici allora, ma vi sono dei legami che si dimostrano più forti di tutti fin dal loro primo apparire. Questi sentimenti di privilegio accomunavano noi quattro: io naturalmente, con le gambe secche perennemente coperte di cerotti, Peppino, magro e comico come uno scheletro che inforcasse un paio di occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia, poi Michele, con il viso incorniciato da riccioli biondi, la cui occupazione principale nella vita era quella di rivoltare all’insù le palpebre superiori dei begli occhi azzurri e infine, Francesco, il più piccolo, della cui bionda madre venezuelana ero perdutamente innamorato. L’ho rivista, per caso, pochi anni fa. Il tempo è stato rispettoso della sua bellezza.

    Ci sono giorni in cui rimpiango la spensieratezza di quelle ore invernali, che scorrevano lente sotto lo sguardo vigile e severo delle suore che si occupavano di noi. Noi quattro, naturalmente, stavamo sempre insieme. Condividevamo ogni cosa, gioie e dolori e i primi amori, che trovavamo il coraggio di confessarci l’un l’altro, quando non riuscivamo più a tenerci dentro quei sentimenti sconosciuti, che ci facevano battere forte il cuore e dipingevano le nostre gote di   vividi rossori. Eravamo più che amici, eravamo quasi fratelli e tali erano, soprattutto per me, che avevo solo sorelle. Ho avuto il privilegio di trascorrere con loro i momenti più belli dell’infanzia. Mai più ho avuto amicizie così strette. Ricordo che il nostro più grande divertimento era scommettere sul colore degli indumenti intimi delle ragazzine. Terminate le puntate, non restava che sollevare loro la gonna per scoprire se il colore delle mutandine che indossavano, corrispondeva a quello sul quale avevamo scommesso. Il fortunato vincitore si accaparrava un bel gruzzoletto di cianfrusaglie, vecchi bottoni, biglie di vetro colorato, qualche caramella e, raramente, qualche monetina da due lire.

Tutto questo accadeva quando non inseguivamo gli altri bambini, con il viso ricoperto di foglie e spine di rosa attaccate con lo sputo, ululando come aborigeni, fino a quando lo svolazzare di una nera tonaca all’orizzonte e, più tardi, il suono di un paio di ceffoni ben assestati, non ci induceva a più miti consigli. Allora, ci aggiravamo come detenuti inquieti durante l’ora d’aria, nel giardino della scuola.

 Non ricordo bene se fosse una leggenda del paese, o solo una storia inventata da noi bambini, quella che narrava di un tesoro sepolto dai briganti sotto il pero che si trovava in giardino, forse cento anni prima della costruzione della scuola. Fatto sta che la faccenda, a furia di raccontarla, era diventata quasi un’ossessione, soprattutto per noi quattro che, incoraggiati dai giuramenti al silenzio scambiatici reciprocamente, cominciammo ad interessarci all’albero e al sottosuolo nel quale erano immerse le sue radici.

         Si trattava, in effetti, di un vecchio albero, che non dava frutti da tempo. I suoi rami scarni e protesi verso il cielo grigio parevano implorare una tregua al gelido vento invernale, che lo sferzava senza pietà, ma le sue radici, forti e nodose come le braccia di un contadino, affondavano saldamente nelle viscere della terra, a protezione di quel tesoro sotterraneo e misterioso, che ogni giorno stimolava la nostra fantasia.

       Così, un bel mattino ventoso ci mettemmo all’opera, dividendo equamente il lavoro e le mansioni. C’era chi scavava, chi faceva il palo e chi nascondeva accuratamente le tracce degli scavi. Si trattava, però, di un lavoro difficile e pesante, dato che il giardino era cosparso di grosse pietre e massi e la terra era dura e si lavorava a mani nude. Per giunta, era necessario che le nostre fatiche passassero inosservate, si faceva tutto di nascosto, a rischio di dolorose punizioni, se fossimo stati scoperti. Per molti giorni sacrificammo i giochi, i soliti passatempi dell’ora di ricreazione e la compagnia degli altri bambini. Ma niente e nessuno poteva fermarci. Non il tempo inclemente, né la paura di punizioni severe. Tutta la nostra determinazione di fanciulli era impiegata nel comune progetto e già assaporavamo le dolcezze che ci avrebbero ricompensato della lunga e ingrata fatica. Non si parlava d’altro. Tutti i nostri discorsi avevano sempre il tesoro per oggetto e non ci curavamo più di null’altro all’infuori di esso. Mi viene una tenerezza a ripensare a quei giorni. Rivedo me stesso e i miei compagni, come in una foto sfocata, in bianco e nero, quasi non riconosco i loro volti.

       Credo che il nostro duro lavoro sia andato avanti per settimane, forse per un mese intero, non ricordo bene, avevamo quasi messo a nudo le radici dell’albero e i massi e le pietre, che avevamo faticosamente divelto, erano sparse nel raggio di decine di metri intorno all’albero. Ogni giorno diventava sempre più difficile nascondere le tracce delle nostre fatiche, ma eravamo arrivati al momento cruciale: il tesoro esisteva davvero? Decidemmo, pertanto, di conoscere la verità quella sera stessa appena calata l’oscurità, al riparo da occhi indiscreti, che avrebbero potuto metterci nei guai, ma soprattutto perché avevamo la ferma intenzione di non dividere il tesoro con nessuno.

    Quel pomeriggio ci ritrovammo a giocare insieme agli altri bambini, fuori della scuola, ma non riuscivamo a impegnarci nei giochi, ci mancava la spensieratezza, tutta la nostra attenzione era rivolta altrove. All’apparire delle prime ombre della sera, ci defilammo lentamente come fantasmi e ci ritrovammo insieme, sotto le mura della scuola. Si era alzato il vento e la luna era offuscata, a tratti, da nuvole nere che non promettevano nulla di buono.

  Ci facemmo coraggio a vicenda e saltammo al di là delle nere mura che ci tenevano separati dal tesoro. L’edificio grigio della scuola era buio e silenzioso. Era una strana sensazione guardare quelle finestre, che eravamo abituati a vedere di giorno, splendenti della luce del sole e vocianti di bambini, chiuse e sbarrate come gli occhi di un morto. Le suore andavano a letto molto presto e, certamente, a quell’ora dormivano già profondamente. Finalmente ci trovammo in giardino.

Il povero albero desolato si profilava nero all’orizzonte, contro un cielo plumbeo e scuro, come un grottesco crocifisso e incuteva in noi grande timore. Avanzavamo cauti e senza alcun rumore, spingendoci a vicenda quando qualcuno di noi si arrestava per la paura. Grosse gocce di pioggia cominciarono a cadere, mentre il cielo diventava sempre più fosco, dopo avere inghiottito la luna e il fragore di un tuono si perse nel fondo della vallata, verso il lago silenzioso che chiudeva la valle come uno smeraldo imprigionato nella terra.

  Il lavoro cominciò. Bagnati, infangati e impauriti, continuavamo senza sosta. Poco dopo udimmo alcuni sinistri scricchiolii e l’intera pianta venne giù. Avevamo abbattuto l’albero! Al suo posto si trovava, ora, una larga voragine oscura. Ci guardammo negli occhi per un solo istante di smarrimento e continuammo a scavare, non molto per la verità. Subito, infatti, capitò tra le mani, non mi ricordo di chi, un oggetto sferico, non molto pesante e non più grande di una palla. Mentre le gocce di pioggia lo solcavano e lavavano via la terra che lo ricopriva, vidi in quella cosa che avevamo scoperto due grandi occhi neri che mi fissavano. Mi sembrò di essere scrutato dalle profondità dell’inferno e cacciai un urlo.

Era un teschio!

La pioggia riportò alla luce il resto dello scheletro e lo ripulì amorevolmente dalla terra che lo aveva ricoperto per tanti anni. Non molto tempo dopo si scoprì che quelle ossa appartenevano a un bambino che si era perso anni prima e non aveva più fatto ritorno a casa. A quel tempo, la scuola materna non esisteva ancora e la collina dove questa sorgeva era coperta da un fitto bosco.

Quel bambino era stato cercato per giorni, per settimane e per mesi, ma non fu mai trovato. Immaginai che piangesse spaventato, che si disperasse nel non ritrovare la via di casa, in quel bosco sconosciuto, eppure così vicino al paese, che chiamasse sua madre, invocasse i suoi baci e le sue carezze, che urlasse aiuto, ma che nessuno lo sentisse e, dopo essere crollato addormentato per la stanchezza e il dolore, il suo sonno lo avesse cullato fino ai margini dell’eternità. Quell’albero che avevamo sradicato era nato e cresciuto sul suo corpo, aveva vegliato sul suo riposo, si era nutrito delle sue linfe vitali e aveva costituito il suo ultimo legame con questo mondo, ergendosi come una croce, sulla tomba del piccolo.

  Quanto a noi, mai più parlammo di quella storia, il destino ci disperse dopo gli ultimi giorni di scuola. Io andai via, ma gli altri restarono.

Per caso e alla spicciolata, li ho rivisti i miei compagni, dopo tutti questi anni. Michele ha perso quasi tutti i riccioli biondi ed è proprietario di un negozio di parrucchiere per signora. Peppino è un architetto affermato, ha messo su qualche chilo, ma porta ancora gli occhiali da miope, mentre di Francesco ho perso completamente le tracce. Io, invece, solo oggi ho trovato il coraggio di scrivere questa storia, che ha pesato molto sul resto delle nostre vite.

Non so se gli altri ci pensino ancora, qualche volta.

Io lo faccio a volte e provo nostalgia di quegli anni perduti, che non torneranno più a farci compagnia, se non come muti testimoni su un letto di morte.

COPYRIGHT 1998 ANGELO MEDICI

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2 commenti:

  1. Il racconto è ambientato in un luogo unico, in Capitanata, dalle parti di Lucera, fra Puglia e Molise per intenderci, un altro leggendario territorio sannita.
    E’ una terra antica.
    E’ una terra amara.
    Di recente, l’ho attraversata con i miei figli, in tal modo hanno potuto vedere i luoghi in cui sono cresciuto.
    Abbiamo visto sassi, polvere e spine. Così mi hanno detto.
    Ed è vero.
    Sono cresciuto in mezzo ai sassi, alla polvere e alle spine.

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  2. In un modo o nell'altro, girandoci intorno o sbattendoci contro, è sempre lì che torno. Ai luoghi della mia infanzia.

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