giovedì 24 ottobre 2013

Il padrone dei ricordi


“Vissi come erba e non mi strapparono.”

(Alvaro de Campos, Scritto su un libro abbandonato in viaggio)

 

1.

Avvertiva il peso degli anni, come una coltre di neve candida e greve, accumulatasi inesorabile con lo scorrere del tempo, sulla sua schiena, che s’incurvava ogni giorno di più sotto il fardello degli anni andati, mentre si assottigliava quello degli anni a venire. I suoi capelli bianchi, stranamente forti, resistevano in cima al cranio rugoso e solcato dalle vene. Alcuni giorni capitava che non avesse la forza di trascinare in giro i suoi stanchi passi e allora se ne stava intere giornate presso il camino, intento a sorseggiare il suo tè. Ma quando il tempo era clemente, ritrovava il coraggio di avventurarsi in lunghe passeggiate in luoghi molto impervi e distanti dalla sua piccola casa di legno e sfidare la ridente natura primaverile, nel pieno del suo autunno esistenziale.

Girovagava per i boschi freschi e oscuri, odorosi degli umidi umori del sottobosco e placava la sua sete, abbeverandosi a una fonte di acqua pura, fresca e cristallina. Quand’era stanco, si ritemprava all’ombra dei faggi secolari, cingendone i larghi, possenti fusti con le scarne braccia.

Si accontentava ormai, di poco più di niente. Il piacere limpido e frugale di asciugare le vecchie ossa al calore vivido dell’alba, alla ricerca di nuove parole per narrare le sue vecchie storie, il tepore del fuoco nel camino, godendo delle timide lingue di fiamma ardente sprigionate da vecchi ciocchi odorosi di resina e di tempo, che impregnavano la sua povera casa e infine, sorseggiare, nelle fredde serate di novembre, vino rosso novello in un bicchiere incrinato.

 Le sue giornate trascorrevano lente e uguali, il futuro ormai non poteva più riservargli sorprese. E non ne chiedeva, dall’alto scranno degli anni sul quale era assiso. Quando il tempo era rigido e non gli permetteva di uscire, se ne stava alla finestra a contemplare le vette maestose dell’appennino, già imbiancate di neve fin da novembre e i boschi di faggio e gli aceri che oscillavano paurosamente, frustati dal vento. Trasaliva rapito, al brontolio del tuono dietro le cime dei monti, dalla volta cupa e tempestosa del cielo e si smarriva finalmente, acquietatasi la tempesta, nella contemplazione dell’azzurro infinito, terzo, lavato dalla pioggia

            La casetta che si era costruito in una piccola radura erbosa tra le montagne costituiva un sicuro rifugio dal vento e dalle temperature rigide dei monti, che di notte scendevano molto sotto lo zero, ma soprattutto, dai suoi numerosi e fragili anni di vecchiaia. Essa dominava, ormai, la sua vita dall’alto degli anni e scagliava in un nero oblio le ere lontane della sua giovinezza.

            La vita non era mai stata tenera con lui. Aveva dovuto fare i conti, fin da bambino, con la miseria, con la fame e con la guerra, aveva dovuto viaggiare per sopravvivere, aveva conosciuto la malinconia e la tristezza di mondi nuovi e australi, ma era riuscito a ritrovare la via di casa nella schiumosa scia di un bastimento e, quando finalmente aveva raggiunto una certa misura delle sue sostanze, accumulando anni dopo anni di durissimo lavoro, certo non l’agiatezza, ma quel tanto bastante a vivere senza troppo affanno, la morte aveva sistematicamente spazzato via i suoi affetti più cari, ma lo aveva risparmiato. Scorato e abbattuto, aveva vagato per le vie della sua città un’intera notte di dicembre, rendendosi conto solo all’alba, che non c’era più nessuno che avesse in pregio la sua sorte. Era solo al mondo, come un cane.

Era piombato, allora, nella più cupa disperazione, che lo aveva cacciato in una nera cecità  gl’impediva di aggrapparsi almeno agli anni che gli restavano da vivere. Rifiutato dalla morte ciondolava tutto il giorno per le strade. Trascorreva i suoi lunghi giorni bevendo da solo nei bar e nelle osterie e spesso preferiva non tornare alla casa, popolata ormai solo dai fantasmi e dalle ombre e s’addormentava nel fango dei fossi e sul freddo ferro delle panchine, coi ricordi affogati nelle tenebre alcooliche della sua coscienza.

Due freddi inverni durò quel vuoto e freddo vivere.

            Un giorno, pieno di vino e stanco più degli altri giorni, cominciò a camminare senza rendersene conto. Ben presto, uscì dalla città e si ritrovò in campagna; attraversò ruscelli e fiumiciattoli e campi e stradine polverose. Sul far della sera, scorse da lontano, stanco e affamato, la misera casa di un contadino.

Vi arrivò a notte alta: una luce alla finestra lo aveva guidato fino lì attraverso l’oscurità. Si nascose nel fienile e vi passò il resto della notte, in uno stanco e deprimente dormiveglia, durante il quale ripassarono davanti ai suoi occhi arrossati tutti i giorni, le ore e i secondi della sua esistenza andata e riapparvero i fantasmi delle persone che aveva amato.

            Solo poco prima del termine della notte, in quell’ora che è ancora incerta la luce e più veemente il buio, si abbandonò finalmente al sonno vero. Ma fu risvegliato, al sorgere dell’alba, dalla luce opaca e grigia, che filtrava da un grosso foro nelle mura del fienile. Appena fuori, il giorno livido e freddo si stendeva sulla pianura.

Riprese il suo viaggio senza meta e, andando, la strada si faceva sempre più ripida. Camminava come un cieco. La vallata era vuota, non un uomo, né un animale, ero solo nel suo viaggio, come fosse stato l’ultimo discendente di una specie ormai estinta.

            La salita si faceva sempre più faticosa e l’erta gli spezzava il fiato, ma non si fermò un solo istante. Le file deli alberi si fecero più strette e la strada si perse in un bosco fitto e oscuro. In alto, le cime degli alberi ondeggiavano nel vento, davanti, l’intricato labirinto dei tronchi e delle rocce e, sotto i piedi, erba umida e soffice muschio. Alberi antichi, enormi, rugosi per la corrosione degli anni agitavano i rami contorti e distesi a proferire oscure minacce, come giganti immobilizzati nella loro furia, e si torcevano come se volessero strappare le radici dal terreno e fuggire via.

Ma la severità della foresta si stemperava; il cielo azzurro, inframmezzato dal candore abbacinante delle nubi, squarciava le cime degli alberi; il sole punteggiava di macchie d’oro le chiome alberate; le forme si addolcivano, la cupezza e l’intensità del verde si attenuavano insieme, le ombre si dissipavano.

Uscì dal bosco senza preavviso, sbucando in una vasta radura, trapuntata d’erba e punteggiata da cespugli di malva. Su di lui incombeva l’eternità delle montagne.

            Cadde in ginocchio e pianse.

Pianse tutto il suo male, con il viso nascosto nella terra. Piangeva e singhiozzava, abbracciando la terra come un bambino disperato abbraccia la madre. Piangeva così forte che gli dolevano il petto e la gola. Non aveva mai pianto così in tutta la sua vita: era un lusso che non si era mai potuto permettere e il dolore si era inevitabilmente accumulato a strati sul suo cuore, come ere geologiche. Poi finì le lacrime, il dolore si attenuò e, lentamente, fu portato via dal vento. Si rialzò. Sembrava che avesse lottato contro le furie infernali. I vestiti erano laceri e strappati, imbrattati di fango e bagnati. Aveva il volto e le mani coperte di tagli e graffi.

            Si guardò intorno e, mentre con dolcezza l’angoscia si scioglieva e lasciava spazio a sensazioni mai più provate in tanti anni, decise che da quella piccola radura tra i monti, da quel piccolo angolo di mondo, sarebbe risorta la sua nuova vita. Gli era stata concessa un’altra occasione e non aveva intenzione di lasciarsela sfuggire. Così tornò nella città, in quella casa che odiava, mise in vendita quel poco che aveva e da allora, la sua esistenza trascorse libera dall’odio e dal tormento, dal dolore e dal rimpianto, assecondando il ritmo lento ed immutabile della natura.

 

2.

            Alle pendici del monte abitava un vecchietto alquanto sciroccato. In passato, aveva visto un poco di mondo, era stato sballottato qua e là dal destino, come un fuscello dalla brezza, e da anni, poco dopo essere rimasto vedovo, si era ritirato a vivere lassù sui monti, lontano dalla gente, in una vecchia masseria che, sicuramente, aveva visto anni migliori.

Era generoso e ospitale. Forse queste sue qualità erano innate, oppure, semplicemente stimolate dal vino e dal silenzio naturale di quei luoghi, o dalla sua condizione di eremita volontario. Fatto sta che, quei pochi viandanti che si avventurassero fin lassù, alle propaggini estreme del monte, forse attratti dall’ancestrale richiamo delle foreste, erano tutti suoi ospiti. Una fetta di pane e un pezzo di formaggio, che produceva lui stesso, un bicchiere di vino e una tazza di caffè bollente non erano negati a nessuno.

            Anch’io, qualche volta, ero stato invitato a sedere al suo frugale banchetto. Egli fissava l’ospite con gli occhi grigi e acquosi, cercando di scrutarne gli abissi dell’anima, ma subito, la luce viva che li animava si affievoliva ed offuscava e il vecchio, divenuto improvvisamente taciturno, si lasciava sopraffare e travolgere dalla marea dei ricordi di una vita che, inesorabilmente, gli era sfuggita dalle mani.

Vi erano giorni in cui era più disposto alla parola. Narrava le leggende delle montagne, storie di morte e di fantasmi, oppure, ma molto più raramente, brandelli della sua vita passata. Lo ascoltavo volentieri quando mi capitava di salire fin lassù per restare solo con i miei pensieri. Avevo scoperto un luogo che mi piaceva, che consideravo mio, che condivideva i miei affanni e le mie preoccupazioni. Si trattava di un ripido pendio, che precipitava verso l’abisso delimitato dalle coste del monte e io mi sedevo sull’orlo, con le gambe penzoloni, in bilico sul precipizio.

Gli alberi che erano cresciuti sui pendii, fitti e perpendicolari al cielo, creavano irregolari e disordinati reticoli, che evocavano in me il caos primordiale. E’ sorprendente, ma in seno a quella apparente confusione della natura, ritrovavo il filo dei pensieri e le risposte alle domande e scoprivo, ogni volta con la stessa meraviglia, che il mondo non era governato dal caso.

            Il vecchio usciva, ormai, di rado dal suo cascinale. Non aveva tempo e viveva fuori dal tempo. C’erano stati per lui giorni migliori e colmi di speranze e persone che avevano contato qualcosa nella sua vita. Aveva vissuto avvenimenti eccezionali ed era stato anche in televisione, con personaggi famosi dello spettacolo, ma adesso, gran parte della sua vita passata era stata risucchiata dal buco nero che si era formato nella sua testa e lo aveva reso non più padrone dei ricordi.

            Poi, un giorno, il vecchio morì.

Seppi la notizia qualche tempo dopo, mentre ero distrattamente immerso nelle contorte faccende della mia vita. Non appena ebbi tempo, salii da lui, a quella che era stata la sua casa.

Era un freddo mattino di gennaio. La neve imbiancava l’orizzonte e un silenzio irreale e opprimente incombeva sul luogo. Mi avvicinai alla sua porta e attesi, quasi mi aspettassi di vedermelo comparire davanti e invitarmi a entrare. Ma quella volta nessuno aprì, nessuno si presentò alla porta ad accogliere un vagabondo infreddolito. Avanzai timidamente e con rispetto, aprii io stesso la porta ed entrai in casa. Le povere cose del vecchio giacevano abbandonate in disordine. Quand’era in vita, la sua casa mi era parsa sempre ordinata, ma i suoi ricordi, inseguiti e sfuggitigli per tutta la vita adesso erano sparsi per tutta la casa. Vecchie foto in bianco e nero, ritagli di giornale divorati dalla muffa e dai topi, disegni e caricature, fogli scritti a matita con una calligrafia fitta e ordinata e lettere a centinaia, che sbatacchiavano le loro ali di carta sul pavimento di legno come farfalle morenti.

Con voluta lentezza, feci il giro della povera abitazione. Avvertivo con chiarezza il peso del tempo e della desolazione che era stata la compagna fedele del vecchio nei suoi ultimi e lunghi anni. Era una sensazione opprimente, mi pesava sul petto impedendomi di respirare.

            Corsi fuori, all’aperto e spalancai la porta, mentre le dita ghiacciate e sottili del vento frugavano tra i ricordi del vegliardo e la luce del mattino disegnava nuovi arabeschi sui muri. Respiravo a pieni polmoni quell’aria frizzante che mi pungeva le narici, afferrandomi ad essa, come se potesse salvarmi la vita. Lasciai la porta aperta, permettendo all’aria fresca di entrare e cacciare via lo spettro della morte che si era fermato per troppo tempo in quei luoghi. Poi andai via, lontano e non tornai mai più.  

Sapevo bene che il padrone dei ricordi, che aveva derubato il vecchio e lo aveva lentamente condotto alla morte, si sarebbe preso, presto o tardi, anche i miei e, un giorno non lontano, mi avrebbe portato via, insieme alla mia solitudine.

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