giovedì 1 agosto 2013

Don't worry... only good vibrations!

Oggi voglio ricordare la figura di un grande, Robert Nesta Marley, meglio noto come Bob Marley, profeta del reggae e del rastafari, re delle good vibrations che fluivano come onde del mare dalle sue canzoni. Marley è prematuramente scomparso nel 1981 per un tumore al cervello. Aveva solo trentasei anni. Lasciò una marea di figli e tante donne che lo amavano. Fu ricoverato nelle migliori cliniche americane, ma non ci fu niente da fare. Passò direttamente dalla cronaca alla leggenda.
In Italia vi fu un grande clamore, da noi era molto amato, reduce dallo storico concerto al San Siro,  tenutosi il 27 giugno 1980, la stessa sera della strage di Ustica. Me lo ricordo il suo funerale in Giamaica, un oceano di gente e migliaia di donne e bambini che piangevano. Se a piangere al tuo funerale sono le donne e i bambini, vuol dire che nella vita sei stato un grande. A quell’epoca ero bambino anch’io, imparavo a suonare la chitarra con le sue canzoni e mi ricordo quanto piansi. Bobby era stato il mio primo eroe. Le sue canzoni parlavano di libertà e fratellanza, di sole, di pace e di speranze. Diceva di non piangere, di asciugarsi le lacrime, di non preoccuparsi, perché ogni cosa sarebbe andata per il verso giusto. La sua morte fu come la caduta di un dio, che scopersi fragile e delicato.
Robert fu sepolto insieme alla sua chitarra, il suo pallone da calcio, la Bibbia e una pianta di marijuana. Io credo che faccia ancora qualche partitella con gli angeli, lassù tra le nubi, che ogni tanto tenga un concerto per il Grande Padre e chissà che il buon Dio non gli abbia dato il permesso di coltivare una piantagione di marijuana sulle azzurre distese del cielo. 
Ancora oggi, cantando sulla sua voce inconfondibile Is this love o No woman, no cry, le parole mi s’aggrovigliano in gola, gli occhi mi si inumidiscono e devo smettere e lasciarlo solo al canto sul tappeto sincopato del reggae.
Bob fu una ventata fresca nel mondo. Non un uragano, ma una brezza gentile. Il mondo aveva un disperato bisogno di speranze, c’era la guerra, c’era la fame, c’era la povertà. Proprio come ora.
E poi, c’erano i pregiudizi razziali.
"Non ho avuto padre. Mai conosciuto... Mio padre era come quelle storie che si leggono, storie di schiavi: l'uomo bianco che prende la donna nera e la mette incinta" diceva.

E anche: "Mio padre era bianco e mia madre era nera. Mi chiamano mezzosangue, o qualcosa del genere. Ma io non parteggio per nessuno, nè per l'uomo bianco, nè per l'uomo nero. Io sto dalla parte di Dio, colui che mi ha creato e che ha fatto in modo che io venissi generato sia dal bianco, che dal nero".

Mai nessuno si sarebbe immaginato che dalle peggiori topaie di Kingston, tra gente che moriva di fame, bambini che giocavano a calcio nel fango, magri come scheletri e madri che piangevano per un figlio in carcere, o peggio, ammazzato dalla polizia o morto di overdose, sarebbe sorto un profeta a cantare “non preoccuparti di niente, ogni più piccola difficoltà andrà per il verso giusto” (Three little birds), oppure “no donna non piangere, asciugati gli occhi, ti dico” (No woman, no cry).
Non avevano neppure i soldi per comprarsi una chitarra, così, costruirono qualcosa che le somigliasse, con la cassa fatta da una scatola di sardine vuota, una canna di bambù per il manico e cavi elettrici per le  corde. Eppure suonavano musica immortale.
Ci sono stati tanti altri musicisti reggae, prima e dopo di lui, tanti epigoni, perfino alcuni dei suoi figli, ma al suo cospetto, sono solo ombre sbiadite.
Come non ricordare i versi di Redemption Song, una canzone senza tempo, bella perfino nella struggente versione di Joe Strummer dei Clash, incisa poco prima della sua morte. Non voglio sbagliarmi, ma credo che sia stata la sua ultima canzone.
Vecchi pirati mi hanno fregato
Mi hanno venduto alle navi negriere
Dopo avermi strappato
Da un inferno senza fondo.
Ma la mia mano venne fortificata
Dalla mano dell’Onnipotente
Emancipatevi dalla schiavitù mentale
Solo noi possiamo liberare la nostra mente
Non temete la bomba atomica
Nessuno di loro può fermare il tempo
Ma anche le parole crude e violente di I shot the sheriff.
"Ho sparato allo sceriffo

Ma giuro che è stato per legittima difesa

Ho sparato allo sceriffo

E loro dicono che è un delitto capitale

Lo sceriffo John Brown mi ha sempre odiato

Il perchè non lo so

Ogni volta che gettavo un seme

Lui mi diceva di ucciderli prima che crescesse

Un giorno la verità mi è venuta incontro

E io me ne sono andato dalla città, si

All'improvviso ho visto lo sceriffo John Brown

che mirava per colpirmi

Così ho sparato - L'ho ucciso, così dico

Se sono colpevole pagherò

Ho sparato allo sceriffo

Ma giuro che è stato per legittima difesa"

Ho visto un documentario qualche tempo fa sulla sua vita di tutti i giorni. Un tranquillo padre di famiglia, che si alzava all’alba per pregare e andare a correre sulla spiaggia a salutare il sole. Gli piaceva correre e tenersi in forma per possedere l’energia necessaria per cantare e ballare con il suo popolo. Non si risparmiava mai. E al ritorno, infinite partite di calcio per strada insieme ai suoi figli. Il calcio era la sua grande passione. Molti non sanno di questo suo lato sportivo e familiare. I più lo conoscono come un grande fumatore di marijuana, ma era solo un mezzo per avvicinarsi a Jah, il Dio del Rastafari.
Il rastafari è una religione di grande fascino, soprattutto per chi discende dagli schiavi neri deportati dall’Africa sulle navi negriere (a proposito, chi ricorda il bellissimo film Amistad di Spielberg?) per morire di fatica nei campi di cotone della Louisiana o del Kentucky, o spaccarsi la schiena a coltivare caffè nelle vastissime piantagioni del Brasile. La religione cattolica insegue la vita eterna, loro si accontentano di molto meno: il ritorno all’Africa, la grande madre.
Bobby piaceva perfino a mia mamma. L’ascoltavo intonare Buffalo Soldier in cucina, la parte che fa “uoioiò uoioioiò uoioioioioioioiò”, avvolta in una densa nuvola. Non era fumo di cannabis, ma il vapore dell’acqua calda mentre lavava i piatti.
Una notte l’ho sognato. Era di spalle che suonava la chitarra, la sua scolorita Les Paul. Vedevo la sua testa di medusa agitarsi al ritmo in levare del reggae. Sembrava appena uscito dalla copertina di Natty Dread. A un tratto smise di suonare. Si voltò verso di me, mi porse la chitarra e sorrise, come a dire: “Tò, ora continua tu”.
Tutto qui.
Mi svegliai quasi in lacrime per l’emozione. Il sogno era così reale. A quel tempo ero in profonda crisi creativa. Erano quindici anni che non toccavo una chitarra e pensavo di non poter suonare mai più. Corsi da basso in cerca della mia sei corde. Lei mi guardò con aria imbronciata e triste, come un’amante abbandonata. La ripulii con cura dalla polvere e dalle ragnatele, l’accordai con molta fatica e indovinate quale fu la prima canzone che suonai?
Redemption Song!
In capo a una settimana scrissi una quarantina di canzoni.
Sono passati quasi dieci anni da quel sogno, ma non ho ancora smesso di suonare.
E di scrivere.

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