venerdì 21 agosto 2015

Americanata



L’Autostrada Sessantasei corre attraverso una terra desolata. Un cactus appare ogni tanto, qua e là, fra la polvere del deserto, è il Nuovo Messico e io ci sto correndo sopra. Se potessi osservarmi dall’alto, vedrei soltanto un puntino rosso che si muove lentamente su un nastro argenteo che si chiama Autostrada Sessantasei. Se non fosse per questo tramonto infuocato, ultimo dono di un giorno altrettanto infuocato, direi che è una vecchia, sporca terra.

Una volta un nero mi disse: la casa è dove hai qualcuno, la casa è dove non ti odia nessuno; la tua casa può essere il mondo intero. Sarà per questo che la mia casa è molto lontana.

L’auto s’infila veloce dentro la notte che precipita. Se tu fossi qui con me, potresti sentire il filo delle emozioni scorrerti lungo la spina dorsale, come una lama di rasoio che ti apre la pelle. Già, ma tu non ci sei e io sono solo. Completamente solo. Eccetto forse un paio di coyote e un serpente a sonagli.

In lontananza prende vita l’insegna di un motel. Si avvicina, ingrandisce e fugge via dietro i miei gas di scarico. Dietro la staccionata mi è parso di vedere una donna dai lunghi capelli neri. Sarà stata un’indiana?

Accosto e arresto il motore. Non c’è altro. Soltanto il silenzio che m’invade i timpani ed ero io col mio maledetto motore intruso a devastarlo. Ora, ho rimediato. Lontano, fra le brume della sera che avanza, mi pare di vedere ancora quella donna, mi pare addirittura di sentirla cantare. Sento la sua voce argentea nel vento dell’ovest che spira nel deserto, fra i cactus e le rocce.

Mi dicono che ho gli occhi della gente comune, della gente che vive giorno per giorno. Stanotte scopro che è vero.

Rimetto in moto e riprendo la mia corsa. Intanto la notte è scesa rapida sull’Autostrada Sessantasei e vedo già le prime luci di una città.

Los Alamos? Santa Fe? Che importa, fra poco troveranno riposo una vecchia carcassa rumorosa e uno stanco mucchio di ossa.


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