martedì 6 gennaio 2015

Non c'ero


 

Non c’ero quando lei morì. Non me lo perdonerò mai. Avrei voluto tenerla in braccio per l’ultima volta, la mia bionda Camilla, mentre esalava il suo ultimo respiro e cercava i miei occhi per affondarvi i suoi, forse pieni di paura.

Non me lo perdonerò mai. Anche se era solo un cane. La mia dolce Camilla.

Certo non era un cane letterario, come Argo (1) di Ulisse, come Bauchan (2) di Thomas Mann, o Randy (3) di Carofiglio. E, perché no, mademoiselle Cocotte (4) di Maupassant. Era solo un cane. Ma era il mio.

Per anni continuai a sentire le sue unghie ticchettare sul pavimento delle stanze della casa di mia madre, nella sua andatura caracollante e un po’ goffa. Era in discreto sovrappeso. Non conosco come si determini il peso forma canino, ma lei lo era di sicuro. Se dovessi paragonarla a una persona, credo che sarebbe stata una biondona tutta curve e delizie e molto, molto dolce. Mi ricordo che quando tentava di correre, ci si metteva d’impegno, si preparava a scattare come un centometrista, ma la sua corsa era patetica, credo che non abbia mai sfrecciato oltre i due chilometri all’ora. E poi, si stancava subito, soprattutto negli ultimi tempi.   

L’ho amata? Si può amare un cane? Si, si può amare un cane, io l’ho fatto e anche lei ha amato me. Decisamente. Una volta, a causa di un infortunio - ero ingessato dal collo all’ombelico – mi sono fatto un’intera estate in poltrona, ma lei non mi ha mai lasciato solo, neppure per un minuto. Per farla mangiare o uscire a fare i suoi bisogni, si era costretti a trascinarla via di peso, tra molti ringhi e tentativi di mordere. Ma non ha mai morso nessuno. Era tutta una finta per far vedere che era feroce. Un cane affezionato alla casa che abitava e ai suoi occupanti. Prendeva un aspetto serio, ringhiava e abbaiava, digrignando i denti, ma nessuno le dava retta, non si poteva credere che una cagnetta rotonda e burrosa come lei, potesse addentare polpacci e caviglie. E avevano ragione. Ma l’impegno, il coraggio e la dedizione che dimostrava nel difendere noi e la sua casa, quando, spesso a torto, ci credeva in pericolo, era commovente.

Una volta scovò una pericolosa vipera che si era introdotta nel nostro giardino. Prese ad abbaiare furiosamente per richiamare la nostra attenzione e intanto, aveva iniziato una strana danza davanti al rettile; se questo tentava di sgusciar di lato, lei subito gli saltava davanti, se strisciava verso l’altro, lei gli si parava davanti. Un ballo ritmico tutt’intorno al serpente, che a volte portava le sue zampe vicinissimo ai suoi denti veleniferi. Un balletto che si dimostrò efficace, perché la vipera non riuscì a muoversi fino a quando non le fracassammo la testa con una pietra.

Ma ne capitò un’altra. E fu un caso molto strano. Era notte fonda, la casa era avvolta dal silenzio e i raggi bluastri della tv rischiaravano la penombra. Io ero mezzo addormentato davanti al televisore e nel dormiveglia accarezzavo la sua testolina morbida. A un tratto sentimmo un tonfo e subito dopo, strida acutissime provenire dalla cucina. Ci precipitammo di là e vidi due occhi gialli emergere dall’oscurità. Vi fu un gemito più terrificante dei precedenti, uno stridio che pareva una minaccia. Mi si gelò il sangue nelle vene. Una figura nera si muoveva nella penombra. A occhio e croce giudicai che una strega era apparsa nella cucina e profferisse oscure minacce. Camilla fece due abbai di circostanza, molto formali, tanto per ricordare a me, ma soprattutto a lei, che era un cane da guardia e poi, si rifugiò spaventatissima fra le mie gambe. Solo quando la fuliggine si fu diradata, capii cos’era accaduto. Una grossa civetta era caduta, attraverso la canna fumaria, dentro il camino e cercava disperatamente una via d’uscita. Liberare la civetta, fu più arduo che svelare il mistero, ma, aiutandomi con una rete da pesca, ci riuscii. Camilla però non smise di tremare e dovetti portarmela a letto perché non volle saperne di dormire nella sua cuccia. L’uccellaccio notturno proprio non le era piaciuto. 

Io credo che in punto di morte, abbia avuto paura, ma non di morire. Credo che abbia avuto paura di lasciare il mondo morbido, caldo e accogliente che il destino aveva riservato a lei, cucciolo di pochi giorni, abbandonata in un cassonetto dei rifiuti. Paura di dover lasciare le persone che si erano prese cura di lei. Amava tanto la sua casa e le persone che l’abitavano. Quando sentì che era giunta la sua ora, d’istinto andò a cercare mia madre, forse si ricordò di quando lei l’allattava con un biberon per neonati e credo che la considerasse davvero anche sua madre. Ma mia mamma non fece in tempo a prenderla in braccio, che lei morì ai suoi piedi. Ogni volta che me lo raccontava, i suoi occhi si riempivano di lacrime. Era una di famiglia, diceva, giurandomi che non avrebbe mai più preso un cane, perché nessun altro animale avrebbe potuto colmare il vuoto che aveva lasciato.

Ancora oggi, quando torno a casa di mia madre, avverto quel senso di vuoto, pare sempre che manchi qualcosa, o che ci sia troppo silenzio, come quando qualcuno sposta un mobile o stacca un orologio da un muro dopo tanti anni che è stato lì e di fronte alla parete vuota non sai dire cosa manchi davvero, per tutto il tempo che hai passato a fissarla, senza accorgerti di ciò che c’era. Ecco, lei era così. Una presenza discreta, che faceva parte della casa. E te ne accorgevi le rare volte che non c’era. E se, guardando bene la parete nuda e spoglia, puoi vedere la sagoma che il mobile o l’orologio vi ha lasciato per lo scorrere del tempo, forse anch’io posso vedere il profilo della sua ombra canina tra le ombre della casa.

Se penso a lei, mi tornano in mente gli anni giovani della mia vita, anni freschi e sereni, che sono corsi via veloci, sorvegliati dalla sua discreta presenza. Non sfuggiva davvero nulla al suo occhio vigile, neppure quando dormiva. Sapeva tutto della casa e di noi e partecipava a ogni evento, lieto o infausto che fosse. Gioie e dolori, novità e partenze, matrimoni e funerali, lei aveva il suo posto.

Mi viene da sorridere se penso alle sue marachelle e soprattutto al suo modo di farsi perdonare, un modo molto speciale: assumeva un’aria afflitta e drammatica, da tragedia greca e mi guardava con quegli occhi tristi e pieni di pentimento, cercando di cogliere il più piccolo segno di tregua. Poi, cominciava ad avanzare, quasi strisciando, sulle zampe posteriori fino ad appoggiarmi in grembo il capo e in quella posizione mi guardava con certi occhi guaendo piano. A quel punto, mi era passata qualsiasi velleità punitiva e non mi veniva altra voglia che di accarezzarla sulla fronte, come le piaceva. E lei, sicura di essere stata perdonata, fuggiva via a razzo, a saltare sui divani come una bambina impertinente.

Una volta, ci fece molto preoccupare, perché da diversi giorni non riusciva a fare i suoi bisogni e temevamo un blocco intestinale. Decidemmo allora di portarla dal veterinario. Lo studio del veterinario era un posto che lei non amava. Forse sentiva l’odore della paura degli altri pazienti. Fatto sta che, appena capiva dove eravamo diretti, si impuntava sulle zampe anteriori come un mulo greco e non c’era verso di tirarla dentro, così tutte le volte dovevo prendermela in braccio e varcare la soglia dell’ambulatorio con una tempesta di pelo che mi ribolliva tra le braccia. Anche quella volta fece le bizze e dovetti faticare non poco per trascinarmela dietro, ma, appena arrivati, lei fece i suoi bisogni proprio davanti alla porta del veterinario. Credo che la paura del dottore le abbia fatto vincere la stitichezza. Ne fui molto sollevato, anche se dovei ripulire tutto per bene.

Dolce Camilla. Per anni dopo la sua morte ho continuato a sentire l’odore del suo pelo morbido e folto. Per anni ho sognato di accarezzarla. Cosa darei per vedere ancora una volta la sua sagoma comicamente abbondante e riascoltare l’intero campionario dei suoi versi. Ma quello che, di tutti i sensi, mi manca di più è il tatto, mi manca da morire non poterla accarezzare sulla fronte, proprio fra gli occhi, come le piaceva da impazzire, tanto che se non lo facevo io, infilava la testa sotto la mia mano e si accarezzava da sola. Mi manca non poterle tirare dolcemente le orecchie e far scorrere le dita della mano, come punte di rastrello sul pelo folto del suo dorso.

Qualche giorno dopo la sua morte mi venne a trovare. In sogno. Scodinzolava, ma aveva già gli occhi cerchiati da un alone nero. Mi diede un colpetto con il muso umido e freddo, proprio sulla mano, era il suo saluto, faceva così quando aveva voglia di giocare o di farsi accarezzare, e poi, scappò via. Forse una nuova cuccia, una ciotola piena e un altro padrone l’attendevano da qualche parte.     

(1)   L’odissea.

(2)   Cane e padrone.

(3)   Né qui né altrove.

(4)   Storia di un cane.

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